L’occhio

All’inizio aveva due occhi. Un giorno se ne andò e al suo ritorno era finita l’estate. Il mese di ottobre me la restituì col pallore di chi ha barattato il cielo per un soffitto, con un tremito nelle mani, che mi sfiorarono senza toccarmi, in un gesto assolutorio, e con una benda che le dimezzava lo sguardo. Dapprima la seguii di nascosto: aveva il passo riluttante di chi avanza nella penombra, i riflessi fiacchi. La spiavo sempre di spalle, non le offrivo aiuto; il desiderio di sapere mi corrodeva, la paura di capire mi toglieva coraggio.

Il bianco della garza mi atterriva; immaginavo ciò che nascondeva e mi figuravo una ferita aperta, un buco affacciato nel suo corpo, nel nero granuloso del cranio, nella consistenza vischiosa del cervello. Quando gliela tolsero, non volli guardare: temevo ciò che avrei visto – un taglio rappreso e rimarginato male, uno strappo in mezzo alla faccia. Pensavo ai gatti mezzo accecati, l’occhio superstite cattivo e socchiuso, come a voler seguire l’istinto del gemello perduto; – Mia madre è orba -, pronunciavo sottovoce, – Orba -, e quell’orbita dilaniata doveva restare nascosta, coperta dalla garza che invece mia madre si era tolta. La vedevo arrivare e mi voltavo verso il muro; la evitavo con cura per contenere il dolore.

Mi sorprese una mattina; entrò in bagno mentre stavo facendo la doccia, e i suoi occhi nello specchio non si accorsero di me che li studiavo a tradimento, che li fissavo contro la mia volontà, come fossero stati un piccione morto e poi sventrato dalle ruote di un’auto, il sangue che zampilla dal corpo acefalo del tacchino, il maestro Tedeschi che pendeva dal soffitto della sala del refettorio, i pantaloni bagnati tra le gambe. Il destro era sempre lo stesso: era quello che restava della madre che avevo avuto. Il sinistro, invece, era bianco come quelli delle statue, come gli occhi della madonna nella cappella della scuola. Mi spostai sotto il getto d’acqua fredda, lasciai che mi entrasse nelle orecchie, che picchiasse sulla nuca, che mi togliesse il respiro. Quando finii, mia madre non c’era più.

Dopo quella volta, mi educai a guardarla, mi imposi una disciplina nel tentativo di sottrarmi a lei: quando mi parlava, mi concentravo sulla bocca, sulle pieghe del mento, oppure seguivo i gesti delle mani, il bagliore degli orecchini. Il volto di mia madre mi divenne estraneo: provavo, per lei, un amore rafforzato dalla repulsione, un’affezione resa più profonda dalla paura. Non volevo toccarla, il terrore del contagio mi spegneva le carezze: mia madre era ferita, era mutilata e quel male non doveva passare a me. Quel male doveva restare suo. Anche lei divenne più cauta: lo sguardo dimezzato le aveva spezzato il mondo. Aveva, adesso, mezza casa, mezza figlia, mezza vita: l’occhio sinistro non mi vedeva più. Era una finestra che dava su un muro.

Nessuno mi raccontò cosa le fosse accaduto davvero, cosa ne fosse stato di quell’occhio, a chi lo avesse ceduto e perché si fosse presa quello bianco della madonna senza chiederle la grazia di lasciarglielo. Nessuno mi chiese dell’incidente, per la mia stessa paura della trasmissione, per la medesima repulsione cui avevo consegnato l’amore di figlia, in cambio delle mie pupille intatte. Solo Nilde lo fece, dodici anni e due occhi di furia e d’azzurro: – Chi le ha preso l’occhio destro? -, e non le risposi. – A tua madre -, insisté, – Chi gliel’ha cavato? -, e il suo coraggio mi fece piangere, l’impudenza mi parve affetto: la solitudine mi aveva appannato la vista. Le confessai che non lo sapevo, ma che quell’occhio mi aveva tolto mia madre, che senza il sinistro non la vedevo più. Che non le ero più figlia. Allora Nilde si sporse verso di me, come se volesse baciarmi: sentii il suo respiro di caffellatte sulla guancia, poi la fitta di dolore al contatto tra i suoi incisivi e la mia pelle. Mi morse sullo zigomo, mi mancò di poco; – Ti volevo mordere sull’occhio -, mi disse. – Così diventavi come tua madre -. Era dispiaciuta, era delusa, era trionfante. Mi portai un livido nero sul volto per quasi tre settimane, il morso di Nilde mi segnava il profilo. Quando guarii, me ne rattristai. Nilde, invece, mi divenne cara.

Iniziai ad amarla quando scomparve il dolore e la mia pelle tornò nuda, priva del marchio dei suoi denti. Finché lo sfregio mi occupava il volto, non provai solitudine né tristezza: Nilde mi aveva restituito un’appartenenza, un legame di sangue, che prescindeva dalla madre, ma che aveva bisogno di essere rinnovato, come una carta di identità, come il lievito del pane. Cercai allora la sua vicinanza e porsi il viso, la mano, la mia carne tenera, già deturpata dalle smagliature, al suo morso di vipera, ai suoi denti di cane randagio che ferisce per contentezza, che azzanna per amore. Lei mi colpiva e poi mi baciava, mi abbracciava e già tornava a farmi male: diventammo inseparabili, io in cerca di uno sguardo che mi vedesse con tutti e due gli occhi, lei pronta a occupare i miei vuoti, a mettere il fuoco nella nebbia della mia miopia. Una sera, mi portò in cima alle scale di casa sua, spense la luce. – Avanti -, mi disse, – Scendi -. La supplicai di riaccendere, di darmi la mano, o sarei caduta, sarei rimasta senza gambe; – Ti prego -, imploravo, e la mia madonna a due occhi non cedeva, la mia madonna guardava e rideva. – Scendi al buio -, rispose, – Hai tutti e due gli occhi, fatteli bastare -, e io scesi, incespicai nei primi gradini, mi ruppi un incisivo. – Come sei bella quando sorridi -, mi disse Nilde, l’indomani, e io le credetti, passai la lingua sul dente affilato, promemoria di decadenza nella mia bocca di adolescente. Sorrise anche lei, integra e bianca come non ero più. Il male che mi porgeva fu la mia prima esperienza d’amore.

Nilde scomparve dopo Natale; a gennaio non tornò a scuola, l’insegnante fece l’appello senza chiamare il suo cognome, ma non l’aveva scordata, l’aveva rimossa, asportata dalle nostre vite come un organo malato. Andai a cercarla a casa sua e lei se ne era andata, sua nonna se l’era portata in Svizzera, ma nessuno sapeva se in un collegio o in un’altra casa, nessuno poteva giurare che la Svizzera di Nilde fosse reale. La sua assenza mi restituì mia madre: il suo occhio solitario mi studiava, mi seguiva, mi vedeva soffrire, ma comprendeva il mio dolore solo a metà, duplicando il risentimento che covavo nei suoi confronti. Il tempo prima che passavo con Nilde divenne il suo e, poco alla volta, ricominciai a guardarla, dapprima di lato, di sfuggita, poi più vicina, dritta in viso, entrambi i miei occhi sul bianco di quello finto, il male della mancanza concentrato in una protesi. Nulla di sacro c’era in lei, l’iride assente mi appariva blasfemo.

Tornò l’estate, se ne andò, le stagioni fecero il giro e mia madre mi divenne nemica e indispensabile. La insultavo, la chiamavo per nome, amputandola del ruolo di genitrice come aveva fatto il chirurgo anni prima con l’occhio. Urlavo, esponevo i miei fallimenti al moncone della sua vista, le infliggevo i dolori che con Nilde avevo chiamato amore e non capivo il suo dispiacere, rifiutavo il suo dolore. Una sera, la vidi piangere: era la prima volta e ne ebbi paura. La studiai da lontano e non la consolai: il suo occhio di statua stillava lacrime di madre. L’odio che provavo me la stava rendendo amata.

Ritrovai Nilde molto tempo dopo; mia madre era morta quella primavera e la sua assenza era rimasta esposta, il suo posto vacante. Ne indossavo il vuoto come l’incisivo spezzato, come l’anulare disadorno, come il ventre rimasto vuoto oltre la soglia dei quarant’anni: lei soltanto era sopravvissuta alle rotture non riparate, agli amori finiti, ai figli mai avuti. La mia madre dimezzata aveva saputo preservarmi intera. Lo dissi a Nilde e lei mi strinse le mani, l’anello le brillò al dito, in bocca le parole adatte a colmare i miei silenzi.

Si era sposata, in Svizzera, era tornata adesso nella città dell’infanzia per amore dell’uomo che chiamava marito e che quel giorno non la accompagnava, ma sarebbe stata una vacanza breve, sarebbe partita l’indomani e non l’avrei rivista più. Non mi disse se era felice, se aveva figli, come li aveva chiamati; non mi raccontò del matrimonio, di sua nonna che me l’aveva tolta, e se qualcuno si fosse mai preso il mio posto. – Chiamami -, mi raccomandò, prima di lasciarmi e sul retro di un biglietto del treno le scrissi il mio numero di telefono, tutte le cifre allineate meno una. Glielo consegnai così, mozzato, e lei lo guardò, capì ma non disse niente. Fu quello il mio addio: il bianco dell’occhio di mia madre a cancellare l’ultimo zero, amore nato da una mancanza e con una mancanza finito.