Avevo appena litigato con Lucio. Un litigio da poco, nato dalla sua solita avarizia di parole, di attenzioni, nato dalla mia fame di amore, di virgole piazzate bene – la gelatina sulla fragola, il velo dello zucchero sulla fetta di torta come una brina, prima di servirla. La panna spruzzata nel cucchiaio al bisogno, poi cacciata in bocca senza pietà.
Mi aveva detto non ti basta mai, mi aveva detto ma non lo capisci da sola, quando siamo insieme che sto bene?, mi aveva detto Matilde, – potere del vocativo –, Matilde, io più di così non so darti, non riesco. Menti, Lucio, tutti possono più di così, volere è potere, giusto? A voi vincenti, a voi privilegiati piace ripeterlo, volere è potere, vi piace da morire, ma morire non sapete cosa significhi, morire per voi è far la conta dei necrologi sul Corriere, morire per voi è il funerale-spettacolo, la tv che s’impiccia, cerimonia privata in diretta nazionale. Però volere è potere, e allora forse non lo vuoi abbastanza, e Lucio s’era spazientito, ma sempre con quella sua calma che ferisce, con la pacatezza che si riserva ai fastidi da risolvere con un assegno e una stretta di mano, con la noncuranza di chi ti congeda e già prepara il sorriso commerciale da rivolgere a qualcos’altro – una riunione, un pranzo di lavoro, siamo una grande famiglia, che cosa si aspetta da questa azienda?
Ero uscita di casa prima del necessario, volevo un cappuccino e una brioche, anche se forse sarebbe stato meglio un biscotto: quante calorie in meno? Forse meglio solo il cappuccino, forse un caffè e un biscotto, o forse ancora… Il fatto è che avevo fame, ho fame, al mattino sono affamata, ma so che non posso esagerare. E quando sto per farlo – esagerare, straripare, disobbedire – mi tocco la pancia, mi tasto il sedere, le ossa del bacino: tutto a posto, ma non devo mangiare troppo. Sono affamata, però mi eccita quel vuoto nello stomaco, e dominarlo mi fa sentire potente, solo che poi ho fame d’altro, d’amore, per esempio. Di tempo altrui, di attenzioni, guardami, Lucio, scrivimi un messaggio, dammi il tempo di tua moglie, delle tue figlie, dammi quel tempo loro, che tanto di te ne hanno abbastanza. Dallo a me, io lo merito, e quel tempo spetta a me e non a loro, tocca a me che sono il di più, e non a loro che sono l’essenziale. Voglio tutto, dammi tutto. Usurpatrice che non sono altro. Ladra di vite altrui.
Al bar c’era la fila davanti al bancone. Ne approfittai per studiare la merce esposta – brioche, cornetti straripanti di crema, di marmellata, di Nutella, brioche da farcire, posso metterci due gusti? Possiamo riempirli finché non stanno per esplodere, come la mia testa, come la pazienza di Lucio, come il fegato di mia madre, che un giorno l’è scoppiato in corpo e l’ha fatta fuori? – Possiamo, vero? -, e sorrisi alla barista giovanissima, volevo dimostrarle ch’ero più attraente di lei, che l’età non conta, ma l’immagine di mia madre col fegato esploso mi si appiccicava ai pensieri, mi distraeva. La vedevo gialla, nella cassa da morto, le caviglie enormi, il seno che le cascava sui lati, perché era distesa – sarà stato di pietra come il resto del corpo? –, ed ebbi l’impulso di andare via, di rinunciare e di affamarmi anche quella mattina. Sei stata di nuovo tu, mamma: è per non diventare come te che non mangio, vedi? Eppure, qualcosa mi trattenne. Qualcuno, direi.
Notai una donna, davanti a me; a dire il vero era dietro e doveva essere entrata dopo, perché non m’ero accorta di lei prima, e mi pareva strano, visto quanto era magra, guardo sempre la magrezza, io. Le ossa sporgenti, gli zigomi affilati e i fossi sulle guance, le cosce vuote, il muscolo mangiato dal corpo che vuole vivere, l’addome rientrante, inospitale. Lo so ch’è malsano, ma che vuoi? Sono una ragazza cresciuta negli anni in cui il corpo da cocainomane era desiderabile, sono una bambina che s’è attaccata nell’armadio i poster di modelle, pop star, meteore televisive corrose dalla fame, la vita bassa dei jeans appesa sul bacino e il perizoma che affondava nella pelle abbronzata, il petto smunto che occhieggiava da un top cortissimo e le costole esibite con arroganza. In quegli anni, ho desiderato tantissimo un piercing infilato in un capezzolo piatto, da maschio, ma avevo le tette di mia madre e le odiavo. Le mie amiche le avrebbero volute grosse e io me le sarei vendute, prendetevele, e digiunavo fino a farmi sparire il mestruo. Allora, da giovane, ero forte e ce la facevo
a digiunare; ora non più, il mio corpo mi costa sforzo. Questo sono io, la salute per me non è mai stata sinonimo di bellezza; la salute è per chi non pensa, per chi non vede la morte nell’ombra che proiettiamo sui muri, perciò attraente non lo sarò mai: perché penso di continuo, e di morire ho paura, ma lo stesso il cibo mi corteggia, sicché ormai m’intrattengo sul margine. Troppo grassa per essere bella, troppo magra per essere grassa: mi aggrappo alle sporgenze del mio scheletro, le sorveglio, le misuro, e poi subito mi punisco. È un compromesso. Equilibrista sul filo tra sottopeso e normalità, bocca piena di saliva, che non sai mai se è repulsione o desiderio.
La donna mi superò nella fila; la guardai passarmi avanti, la costosa borsa in mano, le nocche sbiancate, per quanto la stringeva forte. Doveva essere nervosa, entrare in un bar quando hai quel corpo e quegli imperativi non dev’essere facile e io lo sapevo. La invidiai, e me ne volli per questo: lei era migliore di me. La sua esilità poteva indossare qualunque cosa. La osservai bene, era bellissima. Aveva un volto da campagna pubblicitaria di cosmetici, la bocca grossa e imbronciata e gli occhi azzurri; i capelli lunghi pettinati all’indietro, come una modella in posa. Era di una bellezza gelida e magnetica, nonostante la magrezza malata, nonostante il pallore dissimulato da un’abbronzatura fuori stagione; un bambino pianse e d’istinto mi voltai, urtai il cameriere che stava passando proprio allora e rovesciai il bicchiere di spremuta dal vassoio. Feci per chinarmi a raccoglierlo, a tamponare il disastro, succo d’arancia ovunque, vetri ovunque, e intanto la ragazza aveva guadagnato il capo della fila, aveva guadagnato il primo posto, il bancone. La vidi tirare su il ginocchio e aggrapparsi al bordo di marmo, la giacca che le saliva sulla schiena e le scopriva la pelle nuda, la borsa che le ballava di lato, la vidi allungare le braccia al di là del ripiano di vetro, la mano che afferrava una brioche alla nutella e la portava alla bocca. Ci mise un po’ la gente a zittirsi, e la donna ebbe il tempo di aggredire un maritozzo, una fetta di pastiera, ebbe il tempo di accanirsi sulla crosta di mandorle caramellate di una colomba di pasqua, prima che restasse solo la musica in sottofondo, una vecchia canzone da stabilimento balneare sull’Adriatico. Il controcanto era il rumore di piattini, di ceramiche toccate e urtate, il controcanto erano i gemiti di piacere e di furia, la lascivia della deglutizione, piccole scariche d’un’estasi indecente – avresti detto oscena. Non so come andò a finire; il cellulare mi vibrò in mano in quel momento, ero in ritardo a scuola – una scuola di lingue privata che non mi pagava abbastanza per fingere un tedesco madrelingua ereditato da mia madre, ma che, proprio secondo mia madre, non avevo mai parlato bene –, gli allievi mi stavano aspettando e chiedevano di me, forse sta male, ha avuto un incidente, ha perso il tram, forse stamattina non s’è svegliata, è sparita come Emanuela Orlandi. – Arrivo -, risposi a Roberta al telefono, la mia voce umida a spegnere la sua irritazione, pelle d’un bambino su cui schiacci una sigaretta. – Sto arrivando, ci sono quasi -. Stavo mentendo, lo sapevo, e lo sapeva anche lei; ma tanto mentivo sempre. Nessuno si sarebbe sorpreso. La mia presenza o la mia assenzanon comportano mai una svolta. Nelle storie, sono il personaggio sullo sfondo. Nei film, la comparsa che ricompensi col rimborso-spese.
In ascensore, mi guardai allo specchio; provai a scattarmi una foto, ma le porte si riaprirono e si richiusero, ci riprovai e la foto venne mossa, gli occhi semichiusi, l’inquadratura dall’alto che m’ingrossava le cosce. Eppure, ero dimagrita; era dal giorno in cui quella donna s’era avventata sulle paste che m’ero messa a dieta – oddio, dieta: digiuno, piuttosto. Digiunavo finché potevo, finché non svenivo uscendo dalla doccia o al supermercato, finché la fame non mi possedeva e mi spingeva le mani nel sacchetto di patatine alla paprika, e mi affondava il cucchiaio nel vasetto di maionese, la lingua feroce che leccava ogni residuo dal manico. In quei momenti, io sparivo, ero tutta fame, ero furia e desiderio, bocca e lingua e denti che frantumano. In quei momenti, il mio corpo si riduceva alla bocca, al palato, al tratto della gola che getta il cibo nelle segrete dello stomaco; quello e basta, ero. Sentii scattare la serratura del portone e mi affrettai a premere il tasto della chiusura delle porte; l’ascensore partì e di nuovo mi scattai una foto e di nuovo non venne, allora ne scattai una raffica, una, dieci, venti, il dito sul cerchio sullo schermo, “scatta”, infinite immagini di me impresse nella memoria del telefono. Volevo ricordarmi com’ero quel pomeriggio, volevo lasciare una traccia. La dieta aveva funzionato: via otto chili nelle prime tre settimane e poi ancora due, tre, e poi ancora cinque, e vedere la cifra a sinistra cambiare, sulla bilancia, mi dava le vertigini, mi rendeva onnipotente. L’obiettivo era diventare lei, conquistare la magrezza della donna che aveva aggredito le paste, il traguardo era quella bellezza che risaltava nella tragedia, che rivoltava un gesto violento e lo rendeva bellissimo, lo rendeva accettabile e, nonostante tutto, pieno di grazia. Quella magrezza, io l’avrei fatta mia e come quella donna avrei potuto fare qualunque cosa – salire sul bancone di un bar, mettere i piedi sui piattini delle tazze di caffè e far volare cucchiaini ovunque, zucchero ovunque. Arrivai al quinto piano e, prima di uscire, di nuovo mi guardai allo specchio: grassa. Ero ancora troppo grassa, ma meno di prima. Ero malata e lo sapevo, e anche Lucio lo sapeva – quante volte me l’aveva detto, nelle ultime settimane? Malata, tu sei malata. Forse troppe, forse nessuna; non me ne ricordavo più.
Al quinto piano abitava Lucio. Conoscevo quell’appartamento, ero stata da lui spesso, nell’ultimo anno: la moglie partiva e io dormivo da lui, lo raggiungevo verso le nove di sera, quando il portiere aveva già chiuso e nessuno poteva vedermi entrare, chiamare l’ascensore, salire. Conoscevo bene anche il palazzo, soprattutto adesso che avevo le chiavi di casa ed era tutto più facile. Aspetta, so cosa stai pensando, e hai ragione: sto mentendo, è vero. Avevo solo le chiavi del portone: le avevo rubate al portiere una mattina in cui ero uscita presto per tornarmene a casa e lui aveva già aperto il portone. Stava lavando le scale e la porta della guardiola era socchiusa. Dimmi la verità, tu non saresti entrata? Ci avevo messo un attimo, l’azione aveva preceduto il pensiero: pochi secondi e le chiavi erano nella mia mano, pochi secondi e già ero sul marciapiedi, e già ero in strada, nella luce umida di Milano. Pochi secondi ancora ed ero sul tram, direzione casa mia. Tenevo molto a quelle chiavi, me le ero conquistate da sola: le usavo per accedere all’androne senza fare la figura dell’amante, della prostituta, senza dover aspettare sul marciapiedi che lui rispondesse alla mia telefonata – sono io, puoi aprire? –, senza attesa. Gli mandavo un messaggio quando già ero davanti alle cassette della posta, mentivo ma non del tutto, – Sono di sotto, apri? -, e aspettavo lì, al sicuro. Intanto, leggevo i nomi sulle targhette dorate per distrarmi, per rallentare il cuore – Marini, Chen, Ulas, Colombo-Nimier –, finché lui non mi rispondeva con un messaggio – emoji del pollice alzato, che orrore –, e quello era il via. Allora chiamavo l’ascensore, mi cacciavo in bocca una mentina, mi guardavo allo specchio e mi trovavo orribile, grassa; mai, nemmeno una volta avevo pensato di scattarmi una foto. Mai prima di quel pomeriggio. Ero magrissima, ero bellissima, ero orribile, ero potente e una testa troppo grossa mi pendeva sulle spalle, mentre le ossa del bacino s’affacciavano dalla vita bassa dei jeans. Mi toccai gli omeri: li sentii bene affilati, sotto la pelle già croccante come pasta sfoglia, già scura e squamosa alla fine di maggio. Bene, andavo bene. Salvai la foto, la ritoccai appena – luminosità, contrasto, modalità ritratto –, poi la mandai a Lucio; si intravvedeva l’elastico delle mutande, l’avrebbe notato?
Suonai alla porta senza esitare, – Colombo-Nimier –, e venne ad aprirmi la moglie: era alta, sorrideva, era più grassa di me. Le porsi la busta col regalo, – Questo è per Elena –, era il compleanno della bambina e alle spalle della donna potevo intuire le voci di una festa delle elementari, la musica, l’odore di panini dolci al prosciutto, forse di biscotti. Mi parve confusa, no, era grassa, grassa e basta; – Ciao -, mi accolse, e mentre cercava di capire chi fossi, Lucio comparve alle sue spalle, Lucio mi guardò ma non mi vide, poi mi riconobbe – pochi mesi di lontananza già ci avevano separati – e nel suo sguardo lessi dispiacere, lessi compassione. Era sorpreso, ma non spaventato, e faceva male; mentre lui e la moglie cercavano di capire che fare di me, mentre lui realizzava chi ero e quanto la mia presenza fosse pericolosa per il loro equilibrio, mentre io mi accorgevo che sua moglie non era grassa ma incinta, decisi di smettere di pensare e di passare all’atto. Dopotutto, ero andata apposta e quello era il mio momento. Scattai veloce e li superai, corsi verso il tavolo della festa – panini dolci, marshmallow, biscotti, frittelle – e divorai e ingoiai senza masticare, affondai i denti nella crema dei krapfen, ingurgitai patatine, succo di pesca, coccodrilli gommosi, e intorno a me non c’era niente, niente bambini e niente Lucio, niente moglie incinta, niente Elena. Ce l’avevo fatta, ero tutta un trionfo, ero solo la mia magrezza vuota e sublime. Ero solo il mio corpo, la pelle bruciata dai lettini solari, le ossa appuntite, le cartilagini esagerate.
Ero la mia fame di tutto, d’amore, di vita, di distruzione. Non ero Matilde, però: lei s’era persa. La mia stessa fame se l’era mangiata.