Un posto dove andare

Mi accorsi che aveva iniziato a piovere, mentre la scala mobile mi riportava in superficie; ero uscita senza ombrello quella mattina, mi ero fidata delle previsioni meteo del telefono e non avevo dato ascolto né al colore del cielo né ai gabbiani che si tuffavano urlando dai tetti dei palazzi e atterravano sull’asfalto buio. Non ricordavo più quello che mi diceva mia madre sulla pioggia e sul volo degli uccelli, non ricordavo e non volevo pensarci. – Migliorerà più tardi -, avevo concluso, camminando in fretta verso la fermata. Mi ero sbagliata.

Cercai di ripararmi i capelli con la mano, poi feci per sollevarmi il cappotto sulla testa, ma scivolò subito indietro; col piede colpii qualcosa e con un angolo dello sguardo intercettai uno scroscio di monetine sul marciapiedi. Una donna urlò un insulto, ci misi qualche secondo per capire che ne ero la destinataria, così mi voltai verso di lei e quella attaccò una litania collerica nella sua lingua spinosa. Mi chinai per aiutarla, lei mi lanciò addosso la lattina di pomodori pelati che doveva contenere le offerte dei passanti, e che ormai era vuota. – Mi scusi! -, le gridai, risentita, e me ne andai, i piedi bagnati nei mocassini, la convinzione di aver subito un’ingiustizia. Avrei dovuto vedere Antonio, di lì a un paio d’ore e m’era già passata la voglia: forse, mi conveniva escogitare un ripiego.

Ero quasi arrivata alla porta di casa – l’ascensore era bloccato da giorni, e avevo il fiato pesante e le lenti appannate –, quando mi accorsi che c’era qualcuno, seduto sul primo gradino della rampa di scale che portava al piano superiore, proprio di fronte alla targhetta col mio nome. – Ciao! -, mi accolse, vedendomi salire, e non si mosse dal suo posto: non mi parve di averla mai vista prima e non volevo guardarla troppo, per paura che potesse infastidirmi, diventare aggressiva, cattiva come, nel nostro immaginario, sanno essere solo gli sconosciuti, come se l’identità avesse il potere di cancellare la violenza occulta e come se l’intimità – o la consuetudine o la familiarità – ci mettessero al riparo da ogni pericolo. Sentii il suo sguardo trafiggermi la nuca. – Abita qui? -, le chiesi, e la voce mi divenne stridula, ma la domanda si spense nel vuoto. Mi voltai di scatto verso di lei: indossava un pullover blu e dei jeans, senza cappotto, come se fosse rimasta chiusa fuori casa; la borsa mi cadde di mano, mentre cercavo le chiavi: imprecai e mi chinai a raccoglierla. – Piove? -, mi domandò a sua volta, senza rispondere; la ignorai, continuai a frugare tra le mie cose. – Mi spiace se è stata una brutta giornata -, sospirò lei, ma a quel punto ero riuscita ad aprire la porta; notai un sacchetto di plastica col logo del supermercato in terra, tra i suoi piedi – scarpe bianche, sporche – e mi accorsi solo allora che non sembrava bagnata: doveva essere lì da tempo, da almeno un’ora, forse di più, da prima che iniziasse a piovere. – No -, dissi, senza capire perché stessi mentendo, – Arrivederci -, e chiusi l’uscio e la sua immagine alle mie spalle, quasi che quella donna potesse infilarsi in casa in quei pochi secondi, premendo il suo corpo contro il mio, come un viaggiatore senza biglietto ai tornelli della metropolitana.

Già la vedevo con orrore invadere il mio spazio domestico, occuparlo come aveva fatto con le scale, installarsi al mio posto e cacciarmi dalla mia vita. Restai per qualche minuto nell’ingresso, senza fiatare, sorvegliandola dallo spioncino: la luce era ancora accesa e lei non si era mossa, era seduta nella stessa posizione. Decisi di non pensarci più; accesi la TV, alzai il volume e mi preparai a uscire; erano quasi sei mesi che vedevo Antonio. Ogni volta mi promettevo che non l’avrei richiamato, che non sarei rimasta a dormire nel suo appartamento impregnato dall’odore dei prodotti per le pulizie che usava Beta, il venerdì pomeriggio, apposta per accogliermi, la sera, per non riservarmi il disordine feriale in cui viveva lui. La conoscevo bene, Beta, perché lavorava anche da mia madre, prima che lei si trasferisse a Roma: ogni volta che passavo la notte da Antonio, ogni volta che lui si addormentava e mi lasciava sola col martellare delle lancette del suo Swatch, non potevo fare a meno di pensare che, fino a un paio di decenni prima, avevo dormito sotto un soffitto quasi identico a quello, pochi metri più sotto. Antonio era arrivato quando mi ero già sposata, aveva occupato l’appartamento dei Torrini e ne aveva ereditato il pavimento di graniglia, il divano e pure Beta, Beta la cui lingua aliena le permetteva solo di afferrare i non detti che esplodevano, di tanto in tanto, dietro le porte del condominio, ma non le accordava il potere di parlarne: così lei raccoglieva i detriti e li faceva sparire nel sacchetto dell’aspirapolvere, lo stesso, che si trascinava di casa in casa. Di sicuro, Beta sapeva pure che mi ero stancata di quell’uomo, doveva averlo intuito dalle grinze nelle lenzuola che lasciavamo troppo pulite, dal saluto sbrigativo con cui mi disfacevo di lei, quando ci incrociavamo nell’androne: era arrivato il momento di lasciarlo. Me lo ripetei ancora, mentre mi infilavo i collant e la TV trasmetteva le immagini di una studentessa scomparsa da qualche parte nel nord: il volume era così alto che di sicuro si sentiva fin nelle scale. Ripensai alla donna seduta là fuori, forse qualcuno la stava cercando; indugiai, prima di uscire, per timore di rivederla o per contenere il desiderio di ritrovarla. Quando aprii la porta, lei stava mangiando dei tramezzini già pronti – riconobbi l’etichetta rossa che segnalava la percentuale di sconto sui prodotto in scadenza – e di nuovo ebbi paura. Scesi le scale senza salutarla. Vedere Antonio, quella sera, ritrovare la sua presenza familiare mi diede un sollievo inatteso: gli dissi che lo amavo, che mi era mancato, e credetti persino di non mentire. Non lo lasciai: mi invitò a dormire da lui, nonostante fosse solo mercoledì, ma rifiutai, tornai a casa, lo baciai sotto il portone come un’adolescente che spera di essere scoperta. Al mio ritorno, la ragazza era sparita. Nei giorni successivi, non smisi di pensare a lei, pur fingendo che non fosse così; quando rientravo dal lavoro, salivo le scale di corsa , poi rallentavo sugli ultimi gradini, chiudevo gli occhi giusto prima di arrivare alla porta. Poi li riaprivo: lei non c’era.

Tornò dopo poco più di una settimana, la trovai che mangiava un’insalata di pollo confezionata, con la vaschetta ammaccata appoggiata sulle ginocchia. Mi salutò con un cenno, la bocca piena; non osai parlarle. Venne a suonare dopo pochi minuti, la forchetta di plastica decapitata in mano: – Me ne presti una vera? -, mi chiese; annuii ai suoi occhi azzurri, volitivi e timorosi. – Un attimo -, replicai, e feci scattare la serratura, di nuovo atterrita all’idea che mi entrasse in casa. Presi ciò che mi aveva chiesto dal cassetto della cucina, glielo porsi senza cerimonie. – Te la restituisco dopo -, mormorò, guardandomi fissa: i suoi occhi mi inquietavano, i suoi vestiti, di nuovo gli stessi, mi mettevano a disagio. Faceva freddo, quel pullover sottile sembrava di cotone: troppo leggero, potevo intravedere il vento passare attraverso la trama sciupata e investire le ossa. Ebbi la sensazione che stesse studiando lo spazio alle mie spalle, per capire comeconquistarlo, così la richiusi fuori, annuii quando non poteva più vedermi e alzai il volume della TV, di nuovo, affinché non capisse che mi stavo facendo la doccia, che sarei uscita di lì a poco, lasciandole il campo libero. Mezz’ora dopo, la ritrovai che mangiava ancora, la mia forchetta in mano; – Divertiti! -, mi salutò. Pensai di tornare dentro, di chiamare Antonio e dirgli che non potevamo vederci perché c’era una donna che voleva occupare casa mia. Non lo feci, e restai di malumore per tutta la serata, lo respinsi senza dolcezza, mio malgrado, solo per dimostrarmi che potevo ancora oppormi, che non ero un territorio conquistabile.

La ritrovai ancora un paio di volte, seduta sullo stesso gradino, ma non le parlai più. Un giovedì, quando arrivai, stava mangiando dei ravioli al sugo da un barattolo; l’ascensore era stato riparato e non pensavo a lei, perché ero al telefono, quindi non le prestai attenzione. Suonò il campanello quando mi ero già rimessa il cappotto per uscire; aprii controvoglia: aveva le mani e i jeans sporchi di rosso, c’erano ravioli e salsa di pomodoro e cocci di vetro sul pavimento, ovunque. – Ho fatto un disastro, aiutami a pulire, fa’ qualcosa -, mi disse, cupa: sbattei la porta, afferrai un rotolo di carta da cucina, poi tornai da lei; – Tieni, ma fa’ da sola, e alla svelta: questa non è casa tua -, le risposi, in collera: chiusi a chiave, chiamai l’ascensore, feci come se non esistesse. La vidi pulirsi le mani, quindi sbottonarsi i pantaloni in silenzio, sfilarseli, togliersi le scarpe; mi imposi di non guardarla, ma non riuscii a impedirmelo: aveva gambe magre e livide, capelli castani rasati, occhi azzurri, duri. – Almeno lavami questi -, sibilò, e mi porse quel fagotto sporco e maleodorante, lo evitai correndo giù per le scale.

Quella sera, Antonio e io ci lasciammo.

L’indomani, lavai i pantaloni della sconosciuta in lavatrice: mi sentivo responsabile, mi sentivo in colpa per non averla aiutata. Quando ero rientrata, dopo la rottura, dopo l’incidente con lei, dopo la fine, avevo trovato la mia forchetta sullo zerbino. – Questa non è casa tua -, avevo ripetuto, da sola, a bassa voce: non era la prima volta che pronunciavo quella frase. Chiamai mia madre; non le lasciai il tempo di lamentarsi della protesi all’anca, dei dolori e dell’assenza di futuro: – Che fine ha fatto Benedetta? -, le chiesi, ignorando le sue lagnanze. Finse di non ricordare, – Benedetta chi? -, poi evocò la possibilità di una nuova operazione, provò a parlarmi di una clinica in Svizzera. – Benedetta, ma’, la bambina che tu e il babbo vi metteste in casa quando avevo quattordici anni -. Allora lei sembrò tornare in sé per qualche secondo, piena di risentimento e di vergogna. – Non ne so niente -, dichiarò, – Quella gente non l’ho sentita più e poi al posto del Collegio ci hanno messo un autosalone, non hai visto? -, e tornò alle sue vicende. Misi giù senza ascoltarla.

Benedetta era stata mia sorella per qualche mese, molti anni prima. I miei genitori avevano deciso di scongiurare il divorzio, desiderando con tutte le loro forze un altro figlio. Ci avevano provato, avevano tentato di concepirlo, ma non ci erano riusciti; lo avevano voluto come si vuole un appartamento con tre camere da letto, come si vuole un labrador, come si vuole un’auto nuova, ma la sorte aveva deciso diversamente. Un giorno, al mio ritorno da scuola, mia madre mi annunciò che c’era una sorpresa per me, e andammo insieme al Collegio: le suore le misero in mano una bambina, Benedetta, occhi azzurri, immobili e crudeli e una lunga treccia castana che le scendeva oltre la cintura. La accogliemmo come un gatto scelto da una cucciolata, ce la portammo a casa come un piccione da curare; – Ti piace? -, mi chiese mia madre, la sera, mentre lei si lavava i denti, ma io non seppi cosa dirle, perché era un giocattolo inusuale. La detestavo e la amavo, la volevo vicina e allo stesso tempo non vedevo l’ora che fosse lunedì, affinché la potessimo restituire.

Veniva a casa nostra ogni settimana, dormiva nella mia stanza dal venerdì alla domenica sera, nel letto che doveva essere di un mio ipotetico fratello e che appartenne a qualcuno per poco tempo soltanto; ero gelosa dei suoi capelli e della sua voce roca, della sua grafia appuntita, da adulta e del modo in cui disegnava cavalli con le gambe da donna. Cercavo di imitarne i gesti, il sillabare senza suoni in cui si chiudeva, rifiutandosi di giocare con me; pregavo mia madre di trasformare il mio caschetto nella sua chioma; subivo il fascino dei suoi vestiti da vecchia – pullover marroni, grigi, pantaloni di velluto a coste larghe, da maschio più che da scolara. La portammo a comprare un cappotto e ne scelse uno nero, da orfana, e i miei genitori lo pagarono senza fiatare, le dissero che era bellissima; quella volta, invidiai persino la sua solitudine.

Una domenica pomeriggio, la trovai che rovistava nel cassetto del comodino di mia madre, tra immagini di madonne e fazzoletti di cotone; la rimproverai, dura: – Questa non è casa tua -, dissi. Lo riferii subito a mia madre, parlando forte abbastanza perché Benedetta potesse sentirmi, ma lei non fece nulla, non la sgridò: mi abbracciò e basta; – Sta’ zitta -, mi ingiunse, fiaccamente, e gliene volli per questo, non le parlai per tutta la serata. L’indomani mattina, mi accorsi che era sparita la collanina della Comunione, ed ebbi la certezza che fosse stata Benedetta a rubarla, ma non potei chiederglielo mai, perché la settimana successiva, non andammo a prenderla, in Collegio, e nemmeno quella dopo, né quella dopo ancora. Non la rividi più e, a casa, fingemmo di non averla mai incontrata. I miei genitori si separarono quell’anno, prima delle vacanze di Natale.

Crescendo, ho pensato spesso a lei: l’ho cercata su internet, nei volti dei passeggeri della metropolitana, persino al cimitero. A lungo ho sperato di ritrovarla, di rivederla, senza sapere cosa provassi, se rancore, o rimorso, o una sorta di affetto postumo; negli ultimi tempi, mi ero arresa, avevo smesso di guardarmi intorno, credendo di aver reciso l’ultimo filo che mi legava a lei. Finché non avevo incontrato quella sconosciuta sulle scale. Ho conservato i jeans lavati e stirati per settimane, in un sacchetto, sul fondo dell’armadio. È passata l’estate, ho iniziato a vedere un altro uomo, Mario; non ho dimenticato Antonio, né il sentimento per lui, che ho voluto mettere tra parentesi. Non ho scordato neppure il volto di quella ragazza estranea, i suoi occhi giudicanti, il cranio bianco sotto i capelli cortissimi.

Una sera – la prima in cui Mario mi seguiva nel mio appartamento – lei era ricomparsa; sapevo che sarebbe tornata, ma avevo smesso di aspettarla. La trovammo sulle scale, come la prima volta, ma non mi spaventai; – Ti ho lavato i jeans -, la informai, mentre aprivo la porta e Mario si domandava cosa avessi a che spartire con quella vagabonda e perché mi tremasse la voce quando le parlavo. Andai a prenderli, glieli porsi e lei non mi ringraziò, ma ero felice di rivederla. – Ce l’hai un posto dove andare, stanotte? -, le chiesi allora, andandole incontro. – Io sì -, mi rispose. Fece una pausa, fissò Mario, finché lui non abbassò lo sguardo. – Io sì. Sei tu che lo stai ancora cercando -, e tacque. Chiusi la porta per non vederla più.