La cassiera

La cassiera

Piegai la testa di lato, accomodando meglio l’orecchio contro il telefono; la bambina piangeva, mi abbracciava la gamba sinistra, strofinandomi addosso gli occhi e il naso. Potevo distinguere già la chiazza umida del suo pianto, più azzurra del pallore logoro dei miei jeans, e le passai una mano tra i capelli, sulla nuca sudata. – Che ci vai a fare? -, mi chiedeva mio padre, nel frattempo; – Hai trentadue anni e vai ancora a scuola, ma lo sai che tra poco a scuola ci andrà Sofia? Non ti vergogni? -. Alzò la voce, ma non era arrabbiato; era impensierito, aveva l’inquietudine di chi non sa, di chi non capisce e allora si spaventa, urla, pronuncia parole di cui non conosce il significato. Cercai di cambiare discorso, ma lui insisteva, mi riportava al suo ragionamento sdentato e privo di logica; la bambina si staccò dalla mia gamba, la vidi andare verso la porta, piegarsi sotto il tavolo per fare uno scherzo a mio marito. Doveva averlo sentito arrivare. Salutai mio padre in fretta, misi giù il ricevitore; Bruno era tornato, teneva tra le braccia un ventilatore. – Pesa più di Sofia, ma almeno abbiamo smesso di sudare! -, mi disse, e mi baciò sulla tempia, soffiandomi l’affanno negli occhi. La bambina aveva smesso di piangere, adesso saltellava intorno al padre, si inginocchiava sul pavimento per guardare da vicino quel nuovo oggetto di plastica, ancora impolverato: non ne aveva mai visto uno, prima di allora.

Era settembre, ma faceva ancora caldo; abitavamo in quella casa da più di quattro anni, all’ultimo piano. Avevamo affrontato le estati facendoci vento coi coperchi delle vaschette di gelato, quelle che compravamo da un camioncino che annunciava il suo arrivo sparando verso l’alto una musica infernale, come fosse stata un fuoco d’artificio. Avevamo invocato invano un condizionatore, divinità del centro commerciale, facendo il conto dei soldi che ci occorrevano sul retro delle pagine fotocopiate che portavo a casa dall’università, sottrazioni e addizioni e proporzioni fallimentari, tracciate a penna dietro fogli già stampati eppure sempre da correggere. Avevo scritto la tesi di dottorato durante le parentesi di sonno di Sofia, oppure quando mio padre veniva a prendersela, se la portava al giardino, che era poco più che un’aiuola senza fiori. – Almeno respira un po’ di verde -, ripeteva, – Almeno non sta con la mamma, che studia ancora, che va ancora a scuola -, e mi rimproverava, non capiva la differenza tra una laurea e un dottorato, tra un diploma e la quinta elementare. – Sei sposata e vai a scuola, ma chi te lo fa fare? -, domandava, e intanto metteva a letto la bambina, preparava pane e pomodoro per entrambi, e si fermava a pranzo, quando mio marito non tornava. A volte restava a casa mia fino a sera, giocava con la bambina, mentre io prendevo il tram e andavo all’università. – È importante, papà -, provavo a spiegargli. – Non vado a scuola e basta: ogni tanto insegno -, gli dicevo, – Faccio gli esami agli studenti -, e lui scuoteva la testa, – Ma se non ti pagano! -, ribatteva, ed era vero, così, quando Sofia era diventata più grande, avevo iniziato a lavorare alla cassa di una salumeria di quartiere, ma solo di pomeriggio. Non avevo detto nulla a mio padre, perché si sarebbe incupito e poi non avrebbe compreso, ancora una volta, il nesso tra il mio dottorato in letteratura italiana e gli scontrini di chi aveva appena comprato un etto di prosciutto, tre lattine di tonno e un pacchetto di bicarbonato. – Adesso ho una classe tutta mia -, avevo mentito, e lui un poco ci aveva creduto, aveva iniziato a sgridarmi di meno.

In realtà, la spesa degli altri mi sfiniva, misurare una vita dal contenuto di un carrello mi deprimeva e il mio professore, Bardelli, anche lui iniziava a essere scontento di me. – Lei è distratta, Laura, si dimentica le cose: come faccio a farle avere un contratto? Come faccio a fidarmi di lei? -, e assumeva lo stesso tono di mio padre, mi faceva piangere allo stesso modo, in silenzio e con pudore. Poi capiva di avermi ferito, – Lei è molto brava, ma deve avere pazienza -, mormorava, e si accendeva la pipa coi suoi modi eleganti, gli vedevo l’orologio dorato brillare al polso sinistro, le mani giovanili e lisce di chi non si è mai preoccupato di niente. Lo invidiavo, Bardelli, una vita da universitario e la serenità di chi non deve prendere il tram, di chi non perde la corriera; di sicuro abitava in centro, di sicuro non faceva la spesa, non si sporcava le mani con la carta della mortadella, con la confezione umida del merluzzo surgelato. Avrei voluto essere come lui; poi ci ripensavo, perché avevo Bruno, avevo Sofia, che tra poco sarebbe andata a scuola, avevo mio padre, che ogni giorno passava tre quarti d’ora in autobus, per venirci a trovare. Non stavamo male; ero solo stanca, non riuscivo a incastrare la letteratura italiana e i turni in negozio, i pianti della bambina e la solitudine di mio marito. Quando tornavo a casa, la sera, spesso li trovavo addormentati insieme, Sofia nel suo lettino e lui seduto accanto, sul pavimento, la testa appoggiata sul grembo di sua figlia.

Si avvicinava Natale, la gente continuava a entrare nel negozio fino a tardi, a fare la fila al bancone, ad affollare la cassa; erano arrivati i panettoni, gli spumanti. Il sabato pomeriggio, le signore del quartiere si accapigliavano per l’ultima bottiglia in promozione, per il cotechino precotto, per le lenticchie in scatola. Mi pagavano bene; un giorno, il proprietario della salumeria mi propose di andare anche di mattina, – Ormai hai imparato -, mi disse, – Ormai sei di casa -, e io pensai che forse non era una cattiva idea, che all’università magari non mi volevano, che Bardelli si vergognava di me. – Ci penso -, risposi, e intanto arrivò l’anno nuovo, l’inverno rinchiuse i clienti nelle case.

Un pomeriggio, vidi entrare Bardelli. Era un mercoledì, o forse un martedì; era uno di quei giorni vuoti, in cui alle sei non è ancora venuto nessuno, e allora accendevamo la tv, guardavamo i programmi di Rai due e, intanto, studiavo, preparavo la bozza di una nuova ricerca. Il professore comprò poche cose – una confezione di merendine al cioccolato, della pasta, un barattolo di pesto genovese –, pagò in fretta, senza guardarmi, e se ne andò. Poi tornò l’indomani, e il giorno dopo ancora; iniziò a venire spesso, prendeva un etto di coppa oppure di nazionale o di qualcos’altro, le sottilette e le merendine al cioccolato, tutte le volte. Non mi salutava mai, pagava stendendo bene le banconote sulla cassa e poi controllando il resto, ma senza sollevare lo sguardo; per lui, non esistevo.

Mi domandai se dovessi dirgli qualcosa, ne parlai con mio marito; – E se venisse apposta? -, gli chiesi, – E se venisse in salumeria apposta per vedere se lo saluto? Se lo rispetto, fuori dall’università? -, e Bruno rideva, – Ma che dici -, commentava, – Ma lascialo vivere -. Io insistevo, – Che viene a fare fin qua? Eh? Dimmelo tu, tu che capisci: perché viene fin qui, fino in periferia, a far la spesa in una salumeria miserabile, dove abbiamo solo prosciutti scadenti, dove abbiamo solo le sottomarche? Eh? -, e mio marito si fece serio, si alzò. – Forse è un miserabile anche lui -, rispose, e lo sguardo gli divenne triste. Non ne parlammo più.

All’università, Bardelli continuava ad accendersi la pipa, a rispondere al telefono e a mandarmi ora in una biblioteca, ora in un’altra, per cercargli dei libri. Di sicuro, la sera, si dimenticava della mia esistenza e per lui smettevo di essere una studiosa, smettevo di essere Laura, e diventavo una cassiera, una donna senza faccia.

Qualche settimana dopo, entrò in salumeria dieci minuti prima della chiusura; era una sera di marzo, aveva piovuto tutto il giorno e l’aria sapeva di fuliggine e di un inverno che non finisce, che non ha nemmeno più la prospettiva del Natale davanti. Prese le solite poche cose: la pasta, le merendine, il pesto genovese e due barattoli di pomodori pelati. Mi sembrò triste, vecchio, mi sembrò stanco; mi sembrò mio padre. Lo guardai, – Professore -, gli dissi, e con un cenno del mento gli indicai i pomodori pelati. – Se vuole, ci sono quelli dell’altra marca in offerta -, e lui annuì, non mi rispose, non disse nemmeno grazie. Aspettò che gli dessi il resto, ricontò le monete, tenendole sul palmo, e poi mi guardò: l’aveva mai fatto, prima? Aveva gli occhi azzurri, me ne accorsi solo in quel momento: li aveva mai avuti, prima? Chi era quell’uomo, chi ero io, cosa ci facevamo in quello spaccio meschino coi soldi in mano? Se ne vada, professore, se ne vada e mi porti con sé, no, se ne vada e mi lasci in pace, questo è il mio mondo, no, non lo è, questo è il mondo in cui sono nata, ma nascere vuol dire essere espulsi, essere cacciati fuori, essere lanciati lontano come proiettili di gomma da una pistola ad aria compressa, quelle con cui gli adolescenti si accaniscono sulle lattine vuote di birra, nelle sere della festa patronale, quelle con cui i bambini imparano a essere adulti solo per guadagnarsi un coniglio di peluche gigante, una bambola parlante, una radiosveglia che proietta l’orario sulla parete. Se ne vada, professore, questo è il mondo che avrebbe dovuto lasciarmi andare e che invece mi rivuole indietro; se ne vada e non torni più, i pelati in offerta li lasci a me, li lasci a noi. Se ne vada in pace, perché qui la messa non è mai iniziata e lei non crede in niente; io, invece, ho creduto in tutto e mi sono sbagliata, ho creduto in lei e mi sono ingannata, ho creduto in me e non avrei dovuto. – A domani -, mi congedò allora, e non ho mai saputo dove mi stesse dando appuntamento, né chi fossi, in quel momento, per lui, perché era già uscito, era già sparito quando gli risposi, – A domani, professore -.