Qualcosa da dire

– Avverti, se fai tardi. Smettila di lamentarti; anche oggi non hai detto nulla. Quanto tempo è che non ringrazi qualcuno che non sia un cliente coi soldi in mano? Non prendere la brioche alla crema, a metà mattina, non lo sai che ti fa male? Non andare in riserva: ci sono tre distributori di benzina sul percorso dal negozio a casa. Non dimenticarti di prenotare le analisi. Non spegnere la sveglia prima che suoni, al mattino, o rischi di riaddormentarti -.

Non era facile tenere a mente tutti quei divieti, tutte quelle condizioni; soprattutto perché, dopo tanto tempo, a forza di ripeterli e di ascoltarli quotidianamente come una preghiera recitata controvoglia, ma alla cui abitudine non si riesce a rinunciare, mi avevano deviato i riflessi. Erano diventati nevrosi incontrollate e necessarie, come quando mangi un’oliva denocciolata, ma non ti fidi, la ispezioni con cura, la allontani dagli occhi per metterla meglio a fuoco, trattenendola tra due dita e ti accerti che sia effettivamente innocua, vuota. – Non esagerare coi grassi. Una Coca Cola al giorno ti manderà il cuore in cortocircuito. Non dirmi che non l’hai bevuta, non ti credo -. L’elenco delle interdizioni era così fitto, così famigliare che non sapevo più distinguere tra i no che avevo inflitto e quelli che avevo subito, tra ciò che veniva negato a me ciò che ero stata io, per prima, a strappare a mio marito.

– Non lasciare mai gli occhiali sul bancone. Non uscire senza telefono -. Ero sposata con Mauro da quarantun anni, ma non ricordavo per quale ragione ci fossimo detti di sì; il nostro matrimonio si fondava, piuttosto, su un infinito rosario di negazioni. – Non aprire il rubinetto del lavabo mentre sto facendo la doccia. Non entrare in casa con le scarpe bagnate -.

Eppure, restavamo ben saldi, l’uno accanto all’altra, ci tenevamo per mano con rabbia, con un amore consumato e resistente, ci rivolgevamo a vicenda silenzi che non misuravamo più, che rompevamo solo per rimbrottarci gentilmente qualcosa, per lamentarci di una mancanza: dei capelli in meno sulle tempie e di quelli bianchi che avevano cancellato i castani, del colesterolo troppo alto e del fastidio per le nostre stesse voci. – Non gridare. Non parlare troppo piano, non ti sento. Smettila di lagnarti, non hai nient’altro da dirmi? -. Ricalcavamo l’uno i vizi dell’altra, ci rinfacciavamo le cattive abitudini che ci eravamo contagiati come un’influenza, ma non sapevamo più chi si fosse ammalato per primo; i nostri difetti ci erano cari.

Mauro faceva il commerciante; aveva sessantatré anni, allora, tre meno di me. – Non preoccuparti per la mia età -, mi aveva mormorato quando mi aveva chiesto di sposarmi, – Col tempo recupererò, e diventerò più vecchio e tu più giovane -, e quella rassicurazione impacciata mi aveva liberata da ogni dubbio: sarebbe diventato mio marito, avrei passato la vita a proteggerlo. Non era fatto per starsene da solo, con la faccia nuda protesa contro il mondo; dopotutto, ero nata prima di lui, ne ero responsabile. Non avevamo avuto figli, un po’ per paura, un po’ per pigrizia, un po’ per il caso o per mancanza di slancio, per l’incapacità di trovare un accordo, un compromesso; Mauro aveva la sua bottega di ferramenta, io lavoravo in un’industria di marmellate. Poi la fabbrica aveva chiuso, e io non ne avevo cercata un’altra, me ne ero tornata semplicemente a casa. Mio marito non mi voleva in negozio con sé, – È un posto per solo uomini -, ripeteva, – Ti sporcheresti i vestiti e poi prenderesti freddo, perché non ce l’ho il riscaldamento, nemmeno una stufa -, e io non avevo insistito. Avevo iniziato ad aspettarlo, ogni giorno attendevo il suo ritorno, in silenzio invocavo il motore della sua utilitaria nella strada di casa, poi il suono delle sue chiavi nel portone, nella serratura, il colpo di tosse con cui mi salutava. Ero felice di vederlo ma, alla lunga, non avevo più nulla da dirgli e lui nemmeno; passavamo le serate insieme, fianco a fianco, ci porgevamo le labbra serrate. Ci scambiavamo frasi brevi: le volgevamo al negativo per darci l’illusione che fossero diverse dal solito o forse per ricordarci che, in quei no, c’era tutta la cura che non sapevamo esprimere altrimenti.

Un pomeriggio, Mauro tornò a casa prima del solito; – Ho una novità -, mi annunciò, – Ho assunto una commessa -, e fino all’ora di andare a dormire non parlammo d’altro: mi descrisse questa donna giovane, trent’anni soltanto, che contava in fretta, muovendo appena le labbra, che s’era iscritta a economia e poi aveva rinunciato, si era ritirata. Era la figlia di Rondini, un commercialista rinomato, perché aveva clienti a Roma; era di buona volontà, parlava poco e sempre in italiano. – Stamattina me l’ha portata il padre -, disse, come se non si fosse trattato di un essere umano ma di un secchio di vernice, di un rotolo di carta vetrata, di una qualunque di quelle carabattole virili che vendeva lui. Non aveva mai accennato alla possibilità di far spazio a un collaboratore, né tanto meno a una donna; tuttavia, non protestai, mi ammutolii, esaltata com’ero dalla notizia inattesa, incredula di fronte a tutte quelle storie fresche come il primo pane della giornata. Rimandai il malumore, assecondai il piacere di quel cambiamento, ascoltai mio marito parlare fino a notte.

Da quel giorno, Mauro accantonò lentamente i divieti e fece spazio al racconto degli avvenimenti quotidiani; poco a poco, smise di imprimere a ogni frase il tono ottuso della negazione e persino la voce gli si schiarì, tornò giovane, si riprese indietro gli anni di vantaggio che, una volta, aveva avuto su di me e poi mi aveva ceduto. Rientrava e mi parlava di Sara, di come aveva accolto un cliente, del modo in cui rispondeva al telefono e poi prendeva appunti con la matita da muratore, del babbo che l’accompagnava il venerdì soltanto, mentre le altre mattine veniva in bicicletta e poi la lasciava nel cortile. Io lo stavo a sentire, gli strappavo il discorso con le mie domande e cercavo di stanare le cose che non mi riferiva, mi facevo ripetere dettagli da niente più volte: come aveva i capelli, cosa mangiava a pranzo, se usciva a metà mattina a prendersi il caffè. Mauro si innervosiva, però mi assecondava, ribadiva una frase che già aveva pronunciato; sorrideva più spesso, entrava in casa e mi chiamava, – Luisa, ci sei? -, senza tossire più. La mattina, dopo la doccia, lo vedevo che si spruzzava sulla maglietta la mia colonia agli agrumi.

Continuavo ad ascoltarlo, affamata di vite altrui com’ero; lo sorvegliavo di soppiatto, continuavo a evocargli i miei divieti, che erano stati i suoi e che non sapevo più che ragione avessero di esistere. Nascondevo l’inquietudine dietro a un rimprovero, tamponavo la paura di lasciarlo andare con la curiosità, vi rinunciavo per avidità di storie che non fossero la nostra. Ero incapace di reagire, non l’avevo fatto mai.

Gli chiedevo io stessa di Sara – che ha fatto, è arrivata in orario?, cosa indossava oggi? E sua madre chi è?, ma gli studi, perché li ha lasciati – e poi me ne pentivo. Sentivo una gelosia mai provata farsi spazio nella mia carne anziana, come l’ago di una siringa che deve prelevarti il sangue per cercare una malattia che speri di non avere, ma finisce per ferirti. Volevo vederla, volevo sapere; volevo sorprendere mio marito nel mezzo delle sue storie, scippargli quella sua novità, strappargliela dal braccio come una borsetta. Andai in negozio, una volta, e Sara era dietro il bancone, sana e amabile; mio marito non c’era, così le chiesi un barattolo di colla vinilica, pagai, lasciai che mi ringraziasse col suo accento di paese, privo di malizia. Non le confessai che ero la moglie di Mauro, che ero andata fin lì perché non avevo saputo starmene al mio posto, o, meglio, perché lei si era presa un posto che non le spettava. Non le dissi niente; finsi un’innocenza che non mi apparteneva e buttai il barattolo di colla nel primo bidone della spazzatura.

Avrei pregato mio marito di licenziarla: quell’estranea se ne doveva andare, mi doveva restituire quello che era mio, che non ero pronta a condividere; però mi mancava il coraggio, continuavo a rimandare, a ripromettermi: – Domani, domani lo aspetti e gli dici di non farla venire mai più -, e poi l’indomani non ce la facevo, tendevo il bicchiere all’abbeveratoio delle nuove quotidiane che Mauro mi portava, fragranti ma di seconda mano.

Ricevetti una telefonata da mio marito nel mezzo di una mattinata; – Se ne va -, mi annunciò, senza preamboli, e la voce gli tremava mentre mi spiegava che Sara si sposava, che forse rinunciava all’impiego da commessa, che ancora non sapeva ma che era quasi sicura. – Se ne va -, ripeté, e io temetti che si mettesse a piangere, sollevai bruscamente il piede dal freno che avevo tenuto premuto fino ad allora e mi arrabbiai. Gli dissi che era un traditore, lo insultai, lo accusai di essersi innamorato della prima venuta e di avermi scartata, di aver scartato me, sua moglie; lui sembrava confuso, – Non è questo -, mormorava, – Che stai a dire? -, sillabava e io persi la pazienza. – Allora cos’è? -, sbottai e non volevo più ascoltarlo, non ne potevo più di quelle sue lamentele da amante disilluso. – È che, se lei se ne va, a me non rimane più niente -, disse, – Più niente da raccontarti -.

Col ricevitore ancora in mano, spostai lo sguardo sul calendario appeso alla parete: Mauro si era scordato di un appuntamento dal medico, il giorno prima. Ma quello non era il momento giusto per rammentarglielo.