L’estranea

Quella mattina non mi alzai. Sentii una voce chiamarmi, – Mamma -, non la riconobbi; chiusi gli occhi e non mi mossi, restai immobile, le mani intrecciate sul petto, una tempesta di puntini rossi, verdi, blu sotto le palpebre. – Mamma, è tardi -, ma quella mattina non ero nessuno, non c’ero, non ero madre, non ero moglie, non ero Miriam. Il nome di Maria non mi apparteneva più, ero un’altra; – Mamma -, e strinsi forte le palpebre, – Mamma a chi, che vuoi? Chi sei -.

Fu mio marito a occuparsi di lei. La aiutò a vestirsi, tempo per la colazione non ce n’era più; lo sentii imprecare, accendere la luce nella stanza e venire verso di me, chiamarmi: – Miriam -, cercare di afferrarmi un ginocchio, un piede, attraverso la coperta. – Miriam. Sono quasi le otto -, e nemmeno a lui risposi, mi voltai di lato, – Miriam, maledizione -, poi lei lo chiamò dal bagno, la sua voce estranea mi attraversava il vuoto del cranio come una scossa. Quella voce ostile, sconosciuta, di femmina, di gatta in calore, quella voce odiosa, supplicante ma non di preghiera. Nessuno sa pregare più, nessuno sa pregarmi più, quant’è durata la mia santità di madre? Li sentii uscire, poi mio marito tornò indietro, accese di nuovo la luce, – Miriam, stiamo andando via -, e io niente, zitta. – Miriam, dio -, e mi afferrò con la mano la spalla, avvicinò la sua bocca alla mia faccia – odore di sigaretta, di pastiglia alla menta, del suo cappotto umido. Mi chiamò ancora per nome e non gli risposi, ero una statua indifferente, ero una Madonna che implori, che supplichi, ma lei non ti guarda nemmeno, non ci sei: non esisti. Allora si allontanò, imprecò di nuovo, spense la luce.

Aprii gli occhi quando sentii i loro passi smorzarsi nella tromba delle scale; aprii gli occhi ed era buio. La giornata m’apparteneva. Avrei voluto stare a letto, provare a riaddormentarmi, riprendermi ciò che loro avevano cercato di togliermi, ma la memoria di quelle voci estranee – Mamma è tardi; Miriam, dio – mi tirava fuori a forza, mi obbligava ad alzarmi. Andai a comprare i fiori, un libro che non avrei letto, andai dove andavano gli altri – gli altri che non m’erano nessuno e che pure riconoscevo –, poi si fecero le dodici, le dodici e mezza, le tredici. Alle tredici e quindici, Sara usciva da scuola; mi fermai dal giornalaio, sfogliai una rivista, la comprati. Tredici e otto minuti; i genitori si erano già accalcati davanti al portone, cappotti, sciarpe, il caldo inverosimile di un mercoledì di febbraio. Le tredici e undici; mi accorsi che il giornalaio mi aveva dato un vecchio numero della rivista, era della settimana scorsa: dovevo portarglielo indietro, rivendicare il numero più recente. Tredici e tredici: era troppo tardi, magari dopo. Prendo Sara e ci andiamo insieme, dopo. E se chiude? Se vado e trovo chiuso, dopo? Quello si scorderà di me, non mi cambierà la rivista; tredici e quindici: tardi, troppo tardi. I bambini iniziarono a uscire, il portone si aprì e li vomitò come una bocca malata, i bambini correvano giù per la scalinata e mi venivano incontro. Estranei, tutti estranei, facce sconosciute e ostili, – Mamma, è tardi; Miriam, dio –. Tredici e sedici; passai davanti al giornalaio, ma non mi fermai più. Aprii la porta di casa, la rivista arrotolata in mano, la rivista scaduta, aprii la porta di casa e stava squillando il telefono. Risposi, chiesi scusa, riattaccai e scesi di nuovo in strada.

Per tutta la durata del tragitto, ripassai la mia parte: era un periodo difficile, mia madre era ammalata, no, era in ospedale, no: era morta. E io ero triste, no, devastata, no: non c’ero, era per mio marito, sì, era stato lui a dimenticarsi di andare a prendere nostra figlia da scuola. Sì, sì, era andata così: lui doveva venire e lui non l’ha fatto, io non c’entro. A proposito, perché avete chiamato me? Perché sono la madre, perché non sapete dire altro, mamma, ma’, sempre la madre, sempre io, ma non vedete quanti anni ha, ormai, Sara? Non vedete quanto è cresciuta, quanto è diversa, non vedete quanto è brutta, nella sua pelle di mezzo, né pulcino né gallina, non sentite quanto puzza, come puzza di femmina? Chi è Sara, è mia figlia? Mia? Sicuri? – Doveva venire mio marito -, esordii, subito, le mani gelide e la bocca che mi bruciava. Mia figlia era seduta nell’ufficio della direttrice, la sua maestra d’italiano era seduta accanto a lei, il cellulare in mano, indifferente a me, a Sara, alle mie scuse di madre, di donna, di Miriam. – L’ho vista arrivare -, denunciò un’altra donna, seduta alla scrivania: non m’ero accorta di lei, prima. – L’ho vista arrivare -, ce l’aveva con me, – L’ho vista, sono venuta verso di lei per salutarla, ma lei era già andata via -, e a quel punto mia figlia s’alzò, mi prese per mano, – Mamma -. Era alta, la sua testa sporca – da quant’era che non gliela lavavo, che non gliela fregavo con forza, che non gliela grattavo col sapone? – la sua testa superava la mia spalla, le unghie delle mani tinte col pennarello rosso. Le strinsi le dita, evitando di guardare le mie: rosse, come le sue. Come quelle di Sara, di quella mezza donna estranea che mi aveva tradita: avevo chiesto un bambino, e mi ero ritrovata un figlio. Femmina, una figlia femmina. Non era lei che avevo voluto; ridatemi la mia bambina. Ridammela, Sara, che ne hai fatto? Ridammela. È mia.

Nei giorni seguenti, la studiai. Mi cresceva indesiderata nel salotto, si spruzzava il profumo del padre per mascherare l’odore insopportabile degli ormoni, le cosce le si riempivano di striature come il manto di una tigre, di un gatto di strada, di un serpente. Non sapevo chi fosse, – Mamma -, e non la riconoscevo, – Mamma, ho fame -, e quella sua fame continua mi feriva, – Smettila -, avrei voluto intimarle, quando prima, prima che mi diventasse estranea, quella fame la invocavo, le dicevo: – Mangia -, come si dice amen, la guardavo chiudere gli occhi e ingurgitare il cibo, le carezzavo le cosce bianche, i capelli scuri che sapevano di biscotti, che sapevano di colazione, di ruggine, di latte acido. – Ho fame -, e apriva il frigorifero, beveva Coca Cola, poi si contorceva sulla sedia per tingersi di rosso le unghie dei piedi, la TV sintonizzata sui cartoni animati, che guardava ancora, che non guardava più, mezza gallina e mezza pulcino, mezza figlia e mezza femmina. Chiudevo gli occhi, uscivo dalla stanza e meno volevo vederla, più lei mi cercava, mi abbracciava, mi strofinava addosso quel corpo estraneo. – Mamma -, m’implorava, – Mamma, mamma -, ma io ero Miriam, chiamami così: Miriam, ma quelle parole non le pronunciavo mai. Mi lasciavo stringere da quella donna nuova che non potevo dire donna, e pregavo che finisse presto, che mi odiasse presto. Ecco, pensavo, odiami pure: sarà più facile.

L’indomani – Alina cercava di scrostarmi il rosso dalle unghie, oramai insopportabile, e la radio s’era spenta all’improvviso –, non potei sottrarmi all’ascolto passivo d’una conversazione. La donna mi stava di fianco, le mani strette dalle dita blu di lattice di Ornella – la titolare del centro estetico – e parlava senza stancarsi, parlava di sua madre. Sua madre in un letto, sua madre in una stanza, sua madre in un ospizio, sua madre ch’era viva, ma non nel presente, sua madre che chiamava per nome gente morta da anni, come se evocandola avesse potuto riportarla in vita, come se il cimitero fosse stato una menzogna, uno scherzo, una scommessa persa. Sua madre non la riconosceva più; – Estranea, hai capito? Le sono diventata estranea! Mi guarda e non sa chi sono, le dico ciao, mamma, e lei ride, mamma chi? Mica li voglio, io, i figli! -, e a quelle parole mi sono sentita tirata in mezzo, mi sono sentita sollevata. Non ero sola: quella madre non riconosceva sua figlia come io non riconoscevo Sara, io e quella donna eravamo simili, io e quella madre, io e quella vecchia, io e quell’ammalata che non sarebbe morta presto, perché la mente no, ma il corpo era sano: io e quella disperata ci assomigliavamo. Solo che a lei mancava la consapevolezza. Ne ebbi paura.

Provai allora a sforzarmi, a mentire, – Come sei bella! -, dicevo a mia figlia, e a volte lei piangeva senza motivo, l’ombra del menarca già dietro la porta insieme ai batuffoli di polvere, e quando piangeva m’apparteneva anche meno, quando mi premeva il suo corpo contro – Mamma! –, desideravo allontanarla, chi sei, vattene, non t’ho voluta: una bambina, quella volevo, e avevo avuto Sara, Sara che non entrava più nella salopette e se l’era strappata di dosso, cosce di tigre e malagrazia d’un pulcino non ancora gallina, non ancora piccione, non ancora niente. Poi la guardavo, le unghie dipinte, la pelle che non ce la faceva a espandersi e si rompeva, i capelli che le avevo tagliato corti, per non vederli più spessi e neri e sinuosi sulla porcellana della vasca da bagno: era mia figlia. Ero sua madre da nove anni e mezzo, le avevo dato il nome, la vita, la lingua, le avevo dato la merenda per la scuola, l’avevo vestita, rimproverato, pettinata. Mia figlia era davanti a me ma mi era estranea. Mia figlia era un’estranea. E non volevo sapere chi fosse.

L’altra mattina l’ho riconosciuta. Era lei, ne ho avuto subito la certezza. Sono passati tanti anni da quei giorni in cui mi era diventata aliena, è passato tanto tempo ma non li ho dimenticati: ho finto di averli superati, ho simulato affetto, amore, apprensione, ho recitato il ruolo di madre con una femmina che non mi apparteneva e un poco mi ci sono affezionata. Come quando dai da mangiare ai pesci della vicina di casa mentre lei è in vacanza, come ti abitui alla presenza di un albero nel cortile e ti dispiace, quando lo abbattono perché è ammalato, e per settimane contempli il buco e ne soffri, finché anche quello non ti diventa familiare. L’altra mattina l’ho riconosciuta subito. Stava baciando un uomo che non era suo marito, lo stava baciando appoggiata a un’automobile che non era la sua e che forse era dell’altro: era lei, non avevo dubbi. Dopotutto è mia figlia, dopotutto, è la mia bambina, la mia odiosa, insopportabile bambina, la mia detestata, amata, indesiderata Sara, che avevo voluto e poi non avevo voluto più, che mi ero tenuta accanto con le finestre spalancate per fare andare via il suo odore. Mi sono fermata di fronte a loro, di fronte a lei, e l’ho guardata coi miei occhi di madre che giudicano e condannano, che valutano e sanno. L’ho guardata fissa finché non s’è accorta di me; allora ho attraversato la strada, le sono passata accanto – il suo corpo estraneo e mio contro quello d’un uomo che non era suo marito, il neo accanto alla bocca, lo stesso che ho io, umido della saliva di lui – e sono andata oltre. Senza dirle ciao, senza dirle sono tua madre, senza dirle ti ho vista. E lei pure, non mi ha detto ciao, non mi ha detto sono tua figlia, non mi ha detto ti ho vista. Ci siamo guardate, ci siamo riconosciute e abbiamo continuato a vivere, ciascuna per sé.

Mia figlia è una sconosciuta. Ma adesso, almeno, ho capito che non è me.