Io sono una creatura d’acqua

Io sono una creatura d’acqua. Il salotto di casa è il mio mare e io sono un pesce. Nuoto tra il divano e le poltrone, agito le braccia come pinne, le gambe come pinne; non metto mai la testa fuori, non ci provo perché ho paura: mia madre è stata chiara. Mi ha detto: – Berenice, fuori si muore -, e fuori vuol dire fuori dall’acqua, fuori dal salotto, fuori di casa. Allora io resto dentro, resto sotto; in salotto danziamo, mia madre e io. Da quando mio padre se n’è andato, dalle pareti abbiamo staccato i quadri – via gli oli di paesaggi e di brughiera, via la foto del matrimonio, via i ritratti in abito bianco della prima comunione – e abbiamo fatto installare degli specchi. Specchi, specchi ovunque, calmi come stagni, lucidi come laghi ghiacciati; a mia madre non sfugge niente, mi corregge le braccia, le gambe, le ginocchia, il bacino. Mi corregge la testa, le spalle, il collo, – Berenice, sei rigida -, e si siede in terra, si toglie le scarpe, danza al posto mio, braccia e gambe e bacino allineati, pinne da sirena così diverse da quelle da pesce rosso che agito malamente io. – Berenice, devi respirare bene -, e i miei polmoni si fanno branchie; chiudo gli occhi e conto – uno due tre -, apro gli occhi e porto le braccia in quarta posizione. Mia madre batte le mani, è contenta; ha le gambe nude, la pelle secca, qualche volta ha le mezze punte, altre volte è scalza, i piedi storti, l’unghia dell’alluce infestata da una micosi e i talloni duri, squamosi come zampe d’uccello. Mia madre s’inchina al mio posto, – Devi imparare a ringraziare -, ma parla al suo riflesso, che sono io, s’inchina di nuovo e i capelli, raccolti in uno chignon, sfuggono al fermaglio, le cadono sulla fronte. Se li tira indietro, così forte che le sopracciglia ne seguono il movimento e sembra che anche gli occhi vogliano essere presi insieme, in alto, assieme ai capelli che è facile schiacciare sul cranio, perché sono sporchi e unti e lucidi. Anche i miei capelli sono sporchi, mi prude la testa, mi gratto la nuca, le tempie, le orecchie, ma mia madre non vuole lavarmi. Dopotutto, viviamo immerse in acqua, io e lei.

Io sono una bestia d’acqua. Mia madre pure lo è, ed è per questo che viviamo insieme. Prima c’era anche mia sorella; tutte e tre danzavamo di fronte agli specchi, – State dritte -, la musica del lago dei cigni a tutto volume, il cigno che muore, il cigno che vola, e poi anche la musica dello schiaccianoci, ma il cigno le piaceva di più, amava vederlo vivere, godeva nel vederlo languire, agonizzare, spirare. Il cigno moriva e mia madre ne era eccitata, sembrava fosse stata lei a trafiggerlo: cosa te ne fai del cigno, mamma? Cosa ce ne facciamo? Mangiamolo, ti prego, spenniamolo e mangiamolo, facciamo una festa noi tre, dopotutto sei stata tu a prenderlo, ti ho vista. La musica tremava contro i vetri, espandeva le pareti, – State dritte -, ma noi avevamo fame, – Ho fame -, mia sorella urlava, – Basta, mi fa male la testa -, mia sorella piangeva: il pane era finito, il latte pure, i soldi no, ma non servono soldi sott’acqua. Sott’acqua si deve solo nuotare, mia madre davanti e noi dietro, mia madre davanti e io con lei, io soltanto. Prima c’era anche mia sorella, Fedra: mio padre una mattina l’ha pescata col retino e se l’è portata via, s’è avvicinato all’acquario e ha lanciato due briciole e mia sorella ha aperto la bocca e le ha mangiate. Non ci ha lasciato nulla, è salita in superficie e ha mangiato da sola e l’ho vista provare lo stesso piacere di mia madre per la morte del cigno, la stessa esaltazione. Non è più scesa verso di noi.

Io sono una creatura d’acqua e il salotto di casa è la mia boccia: prima eravamo in tre, mia madre, mia sorella e io. Adesso ci siamo io e mia madre, davanti agli specchi. Quando mia sorella se n’è andata, mia madre è uscita a fare la spesa. Ci è andata da sola, era pericoloso uscire in due: tu sei un pesce, nuota, figlia mia, resta qui ad aspettarmi. La scuola sarebbe iniziata di lì a una settimana e io nuotavo, aspettavo mia madre che aspettava mio padre, mio padre che le aveva dato appuntamento per quel pomeriggio, mio padre che veniva a rabboccare il mare, il lago, la boccia e che non mi avrebbe pescata, come aveva fatto con mia sorella. Mia madre glielo avrebbe impedito. – Vuoi andare con tuo padre? -, mi avrebbe chiesto, e io sapevo che non era una domanda e avrei detto di no, agitando le pinne per non sentire dolore, – Vuoi venire con me? Fedra ci aspetta di sotto -. Mi ero messa a piangere, lo avevo respinto: ero una creatura d’acqua e mia sorella mi aveva tradita: mio madre l’aveva pescata e adesso voleva fare lo stesso con me, e lo desideravo tanto che quelle pinne me le sarei tagliate io stessa, che a nuotare ci avrei rinunciato subito, pur di non sentire più quel ruggito nello stomaco, che mia madre copriva con la musica, pur di non vedere più la mia immagine in ogni parete. – Vuoi? -, e mia madre era di fronte a noi, mia madre sapeva; – Non voglio -, avrei dichiarato, e sarei rimasta con lei, nel mio elemento che mi affamava, che mi stancava, che s’imponeva col prurito sulla testa, e pregavo che non fosse sporcizia ma fossero pidocchi, perché almeno ci avrebbero fatto compagnia, perché almeno non saremmo state due. – Sei sicura? -, e avevo annuito, poi li avevo guardati andarsene dal balcone – non loro, ma il tetto nero dell’auto, il cielo che si specchiava dentro come me che mi specchiavo in salotto. Mia madre mi aspettava, seduta sul pavimento, le scapole puntute e la nuca nuda; si stava mettendo le scarpe, stava per uscire di nuovo, come quando mio padre era venuto a portarci i soldi e mia sorella era rimasta impigliata nella sua rete, come quando eravamo rimaste noi, lei e io, Berenice e una donna che non era madre, non era moglie, non era pesce, ma cigno, cigno che s’è staccato dallo stormo e si prepara a morire.

Invece non morì. Iniziò a uscire sempre più spesso.

Veniva a prendermi da scuola, gambe nude sotto il cappotto, le luci di Natale che sbiancavano ancora le strade, già invase dalla sera nelle prime ore del pomeriggio. Non sentiva freddo mia madre, aveva danzato per tutta la mattina – così diceva: sono morta dieci, quindici, diciotto volte, ma non era lei a morire, era il cigno, che poi era mia madre, il cigno era mia madre – e s’era scordata dell’inverno, di gennaio, della mia vergogna di figlia d’una madre che non si vestiva, che non si lavava, che non ci pensava. Veniva a prendermi a scuola e tornavamo a casa, nel nostro appartamento che sapeva di muffa e di frigorifero vuoto, di tappeti vecchi e di fondi di caffellatte: la musica ci accoglieva subito, ci prendeva alla gola già sulla porta, perché mia madre non la zittiva mai, il cigno bianco e il cigno nero svolazzavano senza requie tra le nostre pareti, andavano a sbattere contro gli specchi, contro il marmo del camino che nessuno accendeva da anni. – Avanti, danza -, e s’accertava che mi spogliassi, mi stringeva lo chignon sulla testa – capelli, pensieri, pidocchi tirati verso il soffitto: ero appesa al lampadario, dondolavo come un incisivo da latte ancorato alla gengiva solo da un lato, e sarei caduta, prima o poi, sarei precipitata e avrei ingoiato il sangue pur di non vederlo. Mi ispezionava la schiena, le ossa che premevano sotto la pelle come a volerla sfondare; mi soppesava: seconda posizione, male, mi premeva tra le costole, terza, già meglio, e prima che potessi mostrarle la quarta, se n’era già andata. – Vado a fare la spesa -, ma tornava sempre con le mani vuote nelle tasche del cappotto, le gambe livide, l’alito di caffè, di sigaretta, di saliva acida. Quando lei non c’era, non danzavo; abbassavo il volume della musica, accendevo la TV e mangiavo ciò che avevo rubato a scuola, affondando le mani nella cartella delle mie compagne. Lontana dagli specchi, divoravo biscotti, panini col prosciutto preparati da altre madri, caramelle, mele annerite. Affamavo le altre per salvarmi, sottraevo il cibo a corpi estranei e minori – minori perché non erano mia madre, minori perché non erano me –, per concedere a mia madre l’illusione d’essere come lei, spalle dritte, piedi deformi e pancia vuota. Prima che tornasse, la sera – quante ore dopo ch’era uscita? Sapevo che prima dovevano passare le notizie, la sigla di chiusura del telegiornale, l’inizio di un film, di un talk show, infinita pubblicità di pizze surgelate, di cioccolato, di allucinazioni d’una cena –, congedavo la TV, rialzavo il volume della musica e m’inginocchiavo in salotto. Portavo la testa tra le mani – schiena molle, pancia vuota, io sono una creatura d’acqua e questo è il mio mare, è la mia boccia, l’acqua è ferma e io pure –, e mia madre apriva la porta. Mi trovava là, cigno morto, e s’illudeva, e le sue brutte piume le si gonfiavano in petto, ma s’ingannava: non ero un cigno, non ero un uccello aggressivo dalle zampe squamose. Non ero fatta per il cielo, non m’interessava sorvolare città, palazzi, strade, la vista dall’alto mi atterriva: non volevo sapere nulla. Io ero un pesce, io sono una creatura d’acqua: in profondità non si vede più niente, non si sente più niente, neanche il proprio riflesso negli specchi, neanche quella musica da funerale che mia madre s’ostinava a danzare. Io sono una creatura d’acqua, ma mia madre no: mi sono sbagliata su di lei. Mia madre è un cigno; un cigno capriccioso, incattivito dalla fame, che s’ostina a coltivare come una pianta di limoni, minaccioso: degno esemplare della sua specie.

Una sera, tornò dalla spesa con Antonio; lo portava sottobraccio come fosse stato una pagnotta, un cartoccio di pesce: lo aveva raccattato sulle bancarelle, lo aveva trovato nel cartone delle uova oppure tra le offerte del supermercato. Lo aveva ricevuto in omaggio coi biscotti senza zucchero, unico peccato con cui ci lasciava insudiciare la coscienza, unica nefandezza su cui chiudeva gli occhi, per nascondere la macchia di cibo sul bianco delle sue piume. Quando mi accorsi di lui – Antonio: giovane, dieci, quindici anni meno di mia madre, grandi mani abbronzate e scarpe di tela ai piedi. Antonio: cosce piene di chi corre e non danza, cosce piene e diverse dalle nostre, denti smussati, denti lisci e diversi dai nostri, ch’erano appuntiti, da animale insaziato –, quando mi accorsi di lui, lo scambiai per un dono. Vidi Antonio nelle mani di mia madre e mi sollevai in ginocchio, m’inchinai al miracolo, eucarestia materna, invito a cibarmi d’un corpo nuovo – non quello di mia madre, non quello di mia sorella, non il mio. Vidi Antonio e fui felice, ma presto capii che Antonio era una preda che mia madre non avrebbe condiviso, che mia madre era una preda che Antonio non avrebbe condiviso, e la mia posizione cambiò. Dal centro del salotto, mi ritirai in un angolo, nella cavità dell’acquario dove i pesci vanno ad accoppiarsi o a morire, mentre mia madre smise di danzare, come aveva fatto anni prima, quando aveva avuto l’incidente che aveva contraddetto il suo destino da ballerina e l’aveva portata dalla superficie del lago alla riva, dallo specchio d’acqua al fango. C’era stato un tempo in cui l’aveva raccontato spesso, un tempo in cui non aveva parlato d’altro, l’incidente e la danza, il dolore e la rinuncia, testa dritta appesa allo chignon, inchino prima d’uscire di scena, il cigno muore e chi non danza piange, il cigno è a terra e il sipario si chiude. Diceva: – Ho avuto un incidente e ho smesso di ballare -, e la gente le guardava le gambe, morbosa, cercava cicatrici, cercava ferite rimarginate male, ossa di titanio. Le interrogavano il portamento per stanare la zoppia, il tarlo che le aveva rosicchiato la tibia, il chiodo nel ginocchio, ma non trovavano niente perché niente c’era: mia madre stava bene. Nessun bisturi aveva mai sfiorato la sua carne di cigno famelico, niente l’aveva mai corrotta, il suo corpo era intatto com’era nato, com’era sempre stato: muscoli, tendini, legamenti, nervi. Nessuna caduta, nessuna rottura, nessuno strappo: l’incidente, il pretesto della fine, era stato un figlio. La testa d’un bambino che le aveva attraversato il sesso, le sue spalle minute che glielo avevano lacerato appena, le sue urla che erano durate due, tre, cinque minuti e poi erano cessate per sempre. Quello era stato l’incidente: una gravidanza non voluta eppure conclusa, un figlio nato e subito morto. Quello: una ferita esterna, un’amputazione in seconda persona, un dolore trasferito a un fantasma. Dopo, anni dopo, era arrivato mio padre, era arrivata mia sorella, ero arrivata io ed era tornata la danza, solo che invece che sul palcoscenico andava in scena nel nostro salotto, mia madre cigno, mia sorella salmone, capace di nuotare incontro alla corrente, e io pesce, pesce rosso.

Sono una creatura d’acqua. Il salotto di casa è il mio mare e io sono un pesce; ma da quando c’è Antonio, con noi, non nuoto più. Nei primi giorni, aspetto che se ne vada, poi prego che se ne vada, poi le settimane passano e capisco che pregare non paga, che dio non esiste e mi lascio pescare dal retino di mio padre, mi offro in sacrificio, mi rendo oggetto del miracolo della salvezza – non moltiplicatemi, vi supplico, lasciatemi una, lasciatemi sola, lasciatemi me. Io sono un pesce.

Mia madre, per molti anni, non la vedo più; intanto, mia sorella e io smettiamo d’essere figlie e diventiamo altro, diventiamo sorellastre, diventiamo mogli, diventiamo madri, e d’acqua ce n’è sempre meno. È solo allora che ritroviamo mia madre, il cigno: è andata a morire in riva a un lago e noi prendiamo un treno per assistere all’atto finale, al cigno che spira ma non si rialza, le piume invecchiate sparse tutt’intorno. Solo che, questa volta, non ci sono applausi, non ci sono “brava”, non c’è nulla, perché quello non è più teatro, ma vita, vita scoordinata, fuori tempo e priva di grazia. Non ci sono fiori per la prima ballerina: le rose, i garofani, i gigli oggi servono a riempire le corone funebri. La musica è quella della campana a morto, ma durerà poco: stasera, in questa stessa chiesa, ci sarà un matrimonio. Mia madre sarà già altrove. Io pure.

Sono una creatura d’acqua, ma stare a mollo per tanto tempo mi ha fatto venir sete, così ho iniziato a bere, prima un sorso, poi un bicchiere, e goccia dopo goccia ho sorbito tutto e ho prosciugato la boccia, il lago, ho svuotato il mare, fino a trovarmi all’asciutto, fino a trovarmi fuori.

Ero una creatura d’acqua, ma senz’acqua non posso più nuotare. Adesso, dovrò imparare a camminare.