Uscita di scuola

Spensi la radio, diedi un’occhiata al forno – ancora trenta minuti di cottura: faccio in tempo ad andare e tornare –, e uscii di casa. Ero in ritardo; camminai svelta verso la scuola – presto, fa’ presto –, mi tirai su il bavero della giacca. Erano i primi di ottobre, il vento iniziava a raffreddarsi e non ero abituata: nella mia città era diverso, il tempo aveva un’altra consistenza e le stagioni indugiavano a lungo prima di decidersi a entrare. Davanti al cancello, era già pieno di donne, pieno di mamme: arrivavano in anticipo, si addensavano in grappoli, si raggrumavamo, crema pasticcera che non riesce. Erano tutte identiche, sovrapponibili, buone solo ad aspettare i figli da riportarsi a casa, stringendoseli al petto come borsette. Affamata, le studiavo, cercavo di comprenderle. Alla mia sinistra, stavano parlando di compiti a casa, di addizioni e sottrazioni, della maestra Bruna che era incinta – si è decisa un po’ tardi, mormoravano – e presto sarebbe stata rimpiazzata. – Speriamo che il supplente sia femmina –, azzardò una di loro, – Speriamo ci sia continuità –, e le altre convennero, brave, tutte a sperare qualcosa. Mi guardai intorno: c’era un uomo con un cane, un po’ in disparte – unico padre contro un esercito di madri –; in un angolo, una donna più anziana delle altre – più vecchia di noi – sorvegliava il portone che tardava a schiudersi. – Sei una mamma nuova? -, mi domandò una, e la sua voce mi fece sussultare, presa com’ero dal calcolo dell’età della vecchia – sarà una nonna, sarà una balia? Non ci assomiglia, di certo non è una di noi. – No -, feci, – Sì -, mi ripresi, e poi tacqui. L’altra sorrise, – Tuo figlio è in prima? -, rilanciò e adesso anche le altre due mi guardavano, aspettavano una risposta, piene di benevolenza: la maternità ci rendeva sorelle. – Mia figlia ha otto anni -, spiegai, – Quindi è in terza -, commentò lei. – I nostri sono in seconda -, e in quel momento la campanella suonò, i bambini corsero fuori dal portone, giù per le scale, incontro alle mamme, all’unico padre, alla signora nell’angolo. Li vidi riunirsi, abbracciarsi, urlare, ridere. Me ne andai.

L’indomani, al mio arrivo, la campanella stava già suonando. Le mamme del giorno prima mi salutarono: – Oggi ho fatto tardi -, mi affrettai a spiegare, e subito vennero assalite dalla folla, dalla confusione, dal sollievo di ritrovare i figli intatti, identici a come li avevano consegnati alla sorte quella mattina. Cercai con lo sguardo la vecchia – nonna, balia, vicina di casa che ti rende un servizio –: era al suo posto. Una bambina le corse incontro, la treccia che le ballava sulla schiena, che le frustava la cartella. Si incamminarono insieme, le seguii per un pezzo di strada. Poi ripiegai verso casa.

– Signora, venga! C’è la mamma di Carlotta! -. Eravamo tornate estranee, era passata al lei; finsi di non riconoscerla, sebbene ci fossimo parlate solo pochi giorni prima. – Carlotta è in terza, sarà in classe con sua figlia -, gridò, l’eccesso di entusiasmo che le arrossava la faccia. Mi avvicinai, nascosi le mani in tasca per l’imbarazzo. – Lei è nuova -, spiegò la donna che mi aveva chiamata a un’altra donna, indicandomi, e io annuii. – Siamo arrivate in paese quest’anno -, mentii, e l’altra mi squadrò – un’occhiata per dedurre chi sono, che lavoro faccio, quanto valgono i miei brutti vestiti che lavo troppo poco, se mio marito mi tradisce. E se lo tradissi io? –. Mi sorrise, accondiscendente: aveva denti da fumatrice, da mamma impeccabile, che non si fa scrupoli ad annerire i polmoni della figlia e accende la sigaretta in casa, in cucina, in salotto. – Come si chiama sua figlia? -, indagò, subdola, e la campanella si intromise, mi portò in salvo. Mi aggrappai all’immagine della vecchia che aspettava in disparte, a quella del padre col cane e mi sentii al mio posto: non avevo fatto nulla di male. Anch’io facevo parte del paesaggio.

L’indomani mi stanarono subito: – Carlotta dice che non ci sono bambine nuove in classe con lei -, esordì la mamma del giorno prima, ma ero stata scaltra abbastanza da avvicinarmi all’ultimo momento, anticipando di pochi secondi l’apertura del portone, sicché feci spallucce. – Strano -, replicai, poi penetrai tra la folla, svicolai sulla sinistra e me ne andai. Ero sola, di nuovo. Nessuna figlia mi teneva la mano e la scuola non era più un luogo sicuro: mi avevano scoperta.

Non tornai più tra le mamme ad aspettare la figlia che non avevo. Cambiare le mie abitudini non mi pesava, così iniziai ad andare a scuola di nascosto. Dopotutto, avevo trent’anni: vista da fuori, assomigliavo a quella che volevo essere, le assomigliavo al punto che ci credevo io stessa e confondevo i piani della realtà, pur consapevole della menzogna. Se mi presentavo a un interlocutore immaginario – Sono Giulia, ho trent’anni, sto andando a prendere mia figlia da scuola –, mi trovavo credibile: sbrigati, Giulia, corri, la campanella sta per suonare, la tua bambina sta per uscire. Non vorrai far tardi? Non vorrai farle credere di averla abbandonata?

Arrivavo con poco anticipo – cinque minuti al massimo –, mi appostavo come un cacciatore: la preda, adesso, era la donna più anziana, l’anello debole. Gli altri non mi interessavano più. La osservavo che aspettava, che si fissava i piedi e poi sollevava lo sguardo all’apertura del portone, si lasciava abbracciare dalla bambina, le carezzava i capelli: quella treccia doveva avergliela fatta lei, al mattino, tirando bene sull’elastico, passando il palmo della mano sotto l’acqua prima di ravviarle la scriminatura. Giorno dopo giorno, iniziai a inseguirle: le andavo a prendere a scuola e poi ricalcavo i loro passi. Non stavo nemmeno troppo attenta a non farmi vedere, sicura della mia trasparenza, a mio agio nel ruolo che mi ero attribuita, incurante del pericolo. – Per tua figlia -, mi ripetevo, – Lo fai per tua figlia -, ma era la bambina di un’altra che tenevo d’occhio, una bambina che teneva per mano una vecchia. Si chiamava Serena, Serenella, aveva otto anni – come la mia – e viveva con la nonna. Da scuola, ogni giorno, camminavano verso la piazza, si fermavano al forno e poi tornavano a casa. La domenica andavano a messa, e io con loro; il pane lo compravo appena le vedevo uscire dalla bottega e dalla donna dietro la cassa mi facevo consegnare la refurtiva. Non dovevo insistere, supplicare, minacciare: mi bastava accennare, alludere, dire: Serenella, e lei mi raccontava della bambina abbandonata dalla madre, – non io, non sono stata io, non è figlia mia! -, della bambina affidata alla nonna, della bambina indesiderata, adorabile, sveglia, amata. Come mia figlia. Entrava una cliente e prendeva il testimone, – Serenella -, riattaccava, e aggiungeva dettagli, come andava a scuola, e che era prossima alla comunione, e che il giovedì pomeriggio la nonna l’accompagnava dalla maestra di piano. Ci andavano alle cinque, e io dietro di loro: aspettavo che la bambina entrasse nel portone, vedevo la nonna andarsene: sarebbe tornata di lì a un’ora, se la sarebbe riportata a casa. Dalla strada, la musica non si sentiva. Da fuori, non si capiva niente.

Un giorno, dopo la lezione, andai a studiarmi i nomi sul citofono: nessuno era da maestra. Erano nomi qualunque – Bonfanti, Sereni, De Marco –, non suggerivano indizi: mi escludevano. Ci misi tempo, ma arrivai lo stesso da lei: Pomponio si chiamava, Mariella Pomponio; suonai alla sua porta e le chiesi di insegnarmi la musica, ma era la bambina che mi interessava, era a lei, e non alla maestra, che puntavo. Mi spiegò che era impossibile, mi sbarrò la strada prima ancora che potessi provare a percorrerla, perché ero adulta, disse, e perciò non potevo diventare allieva sua, perché ero vecchia, io che ero madre di una bambina di otto anni, io che avevo una figlia, e lei cosa aveva? Che cos’hai, Mariella Pomponio? Sola, sei sola, tu e la musica, tu e i figli degli altri, tu e la tua stupida casa. Hai paura di me, di me che sono una madre. Tu non sei niente, tu non hai nessuno: io, invece, ho una figlia: ha otto anni, otto anni il ventitré di marzo. Tu niente, ed è per questo che non mi vuoi. – Va bene -, mi arresi senza lottare, e la guardai in viso, gli occhi di chi non ha amato mai, le labbra sbiancate da un riflesso nervoso che la portava ad assottigliarle, a trattenerle dentro tra gli incisivi, come chi non ha baciato mai e allora si morde, come chi non ha amato mai e allora si ferisce. – Va bene, non fa niente -, le dissi, e me ne andai, l’immagine del pianoforte vuoto contro il muro del suo salotto impressa in fondo agli occhi. Davanti a quella tastiera, ogni giovedì, sedeva Serenella. Ed era la prima volta che potevo immaginarla in un contesto che non fosse la strada: mi stavo avvicinando a lei.

Passarono le settimane, vidi Serena indossare il cappotto, la nonna portarle un berretto all’uscita da scuola, vidi il Natale prepararsi nelle vetrine dei negozi e i giorni dell’anno diminuire, divenire via via più brevi, spezzati come biscotti sul fondo del pacchetto, intrisi di umidità e di malinconia. Era la fine di dicembre quando seppi dalla fornaia che la madre della bambina sarebbe venuta a trovarla e lo presi come un appuntamento. La aspettai, immobile di fronte al cancello, la osservai entrare in casa, – È lei, eccola -, e restai finché non ne venne fuori. Allora le andai incontro, piena di risentimento, – Cosa hai fatto a mia figlia -, le urlai, e lei non si difese, ma urlò forte, non ascoltai le sue parole. La bambina, m’importava solo della bambina, otto anni e un nome che non le avevo dato, otto anni e una faccia che guardavo soltanto da lontano, otto anni di una solitudine da cui non riuscivo ad emanciparmi. La donna chiamò aiuto e arrivò la vecchia, arrivarono le vicine, arrivò la bambina – prendila, prendila e fuggi. Arrivò la polizia, poi un’ambulanza, poi non so più. Mi portarono in ospedale, mi ricoverarono: il mio disturbo mentale – la realtà filtrata dalle paure, la fantasia tesa fino a esplodere – divenne chiaro, illuminato a giorno dalla luce artificiale e rivelatrice del negativoscopio.

Oggi so che non avevo nessuna figlia di otto anni, né di figli ne ho avuti in seguito. Mi sono innamorata, certo, ho lasciato andare più di un uomo, quando non l’ho amato più, ma della gravidanza non ne ho mai voluto sapere. Sono rimasta primipara per tutta la vita, madre che nessun figlio ha mai invocato, madre che nessun figlio ha mai tenuto tra le braccia. La prima e unica gravidanza della mia vita è durata poche settimane: avevo ventidue anni, allora, l’aborto è stato la soluzione logica che abbiamo nominato a mezza voce, il bambino un peso che non ho avuto il tempo di portare in grembo. Me ne sono liberata in fretta, ho ripreso la mia vita senza interromperla e non ci ho pensato più fino ai trent’anni, fino a quando un uomo che avrei dovuto sposare, ma cui non ho più detto sì, mi ha chiesto un figlio. Un figlio come un favore, come una risposta, – facciamo un figlio? -, e allora mi sono persa: il figlio mai avuto, quello rifiutato e rispedito al mittente, è tornato a galla dai tubi di scarico della memoria. Erano passati otto anni dal giorno in cui avevo scelto di non averlo, otto anni avrebbe avuto la mia bambina mai nata – femmina, ne ero sicura – e non ho saputo perdonarmi. Il rancore mi ha oscurato la ragione.

Ho cinquantun anni. La settimana scorsa sono tornata in paese per la prima volta, e ho capito che quel luogo di passaggio, che mi aveva accolta per pochi mesi soltanto, prima di consegnarmi alla guarigione, mi è rimasto dentro come se vi fossi nata. Sono andata a rivedere la scuola, il portone della Pomponio – il suo nome non c’è più, sul citofono –, il forno. Al posto della vecchia panettiera c’era una ragazza, non più di vent’anni. – Questo posto non è cambiato per niente -, le ho detto, e lei subito mi ha domandato se ci avessi vissuto, se fossi straniera. Le ho indicato allora la villa dove abitavano Serenella e sua nonna. – La vede quella? -, e ci siamo voltate a guardarla, attraverso la vetrina. – Quella è stata la casa di mia figlia -, le ho spiegato, e poi sono uscita, ho attraversato la strada, ho suonato a quella porta. – Chi è? -, mi ha chiesto una donna, sull’uscio, negli occhi il dubbio che ci fossimo già viste. Non era così: quella donna era un’estranea. – Chi è? -, mi ha chiesto ancora, e non le ho risposto. Non sono nessuno. Io non esisto.