L’abiura

Sirene dai capelli profumati alla fragola, ballerine alate, desiderabili e sinistre, con quella schiena da insetto e brillantina ovunque. Ballerine volanti azionate da un meccanismo a molla, la melodia dello spot pubblicitario, che ti resta attaccata alla lingua, come la porporina sui polpastrelli unti di merenda, quella melodia che è zucchero, e caria i denti, sale dritta al cervello. Mette in moto il desiderio, il bisogno di possesso, la dipendenza: ne vuoi di più, più zucchero, e ricanti quella sigla oscena, ossessiva: è una preghiera, è una maledizione. Sirene, code da pesce con due buchi per infilarci le gambe, code fatte di tessuto dei costumi da bagno, che cambiano colore al contatto con l’acqua; le voglio, le volevo, il mio esordio erotico l’ho fatto bramando una pinna al posto dei piedi, al posto di quelle polacchine desolanti, al posto delle calze di spugna comprate al mercato in pacchi da cinque. È stato un amore non corrisposto, uno spasmo ormonale a una sola direzione: la mia, amavo io e basta, volevo io soltanto. Non ho ricevuto niente in cambio, mai la mia smania è stata accolta, sfamata, saziata. Il primo piacere della mia vita, invece, il primo orgasmo, intendo, ma allora, in quegli anni, non l’avrei chiamato così, il primo piacere vero della mia vita, vertigine, stordimento, stai per svenire e invece non accade, e invece spalanchi gli occhi e sei sveglio, vigile, il primo piacere della mia vita l’ho provato – l’ho raggiunto – indossando una parrucca. Una parrucca biondissima, più bionda della chioma di una Barbie, più sontuosa di uno chignon delle ballerine volanti. Una parrucca più preziosa dell’anello di fidanzamento di zia Ottavia, che riluceva di scintillio adamantino, ma era vetro, vetro volgare e dozzinale, la stessa materia delle finestre, degli specchi, delle bottiglie d’acqua che riempivamo alla fontanella di piazza Garibaldi. Eppure brillava, – diamante e topazio -, diceva zia Ottavia, e mia madre subito la smentiva con la bocca piegata da un lato, Diamante e Topazio erano le protagoniste di una telenovela e non una pietra da portarsi al dito, ma zia Ottavia insisteva e il suo anello sembrava darle ragione. Lo volevo, lo pretendevo, studiavo piani per rubarglielo, per accendere quella luce sulla mia mano, sulle unghie che mi coloravo coi pennarelli, perché lo smalto m’era proibito. Il primo orgasmo, dicevo, l’ho raggiunto grazie ai capelli, grazie a una chioma ch’era meglio d’un solitario e che m’illuminò la testa come nient’altro: bionda, non rossa, come i capelli di Stefania, ma bionda. I capelli rossi portano sfortuna, così diceva mia madre, ma forse la sua era invidia di chi i capelli li ha marroni, come i cappotti delle vecchie, come le coperte dell’ospedale, come tutti. Coi capelli biondi che mi cadevano sulle guance, sul collo, sulle spalle, con quei capelli, come uno strascico, non fui più io: fui Martina, fui Samanta, fui Cornelia. Mi chiamai Anemone, Jessica, mi chiamai Jessica; il mio nome lo rinnegai in fretta, la mia identità pure: prendetevela, vi do tutto. In cambio, voglio una coda da sirena, voglio le ballerine volanti, in cambio voglio i capelli biondi e il trucco, il rossetto, l’azzurro sopra gli occhi, visto che i miei li ho presi da mia madre, e sono marroni come i suoi capelli. Come le coperte dell’ospedale. Già, come quelle.

Fu Maria Teresa a farmi provare la parrucca; era stata di sua madre, sua madre che aveva il cancro, sua madre che sarebbe morta e ai capelli finti aveva rinunciato, e indossava un turbante, un copricapo sontuoso, verde e argento. – È bellissimo -, le dissi, – Me lo presti? -, e lei forse pensò fosse una di quelle lusinghe offensive che si rivolgono ai malati, ma avevo detto la verità. Quel turbante era bellissimo, m’immaginavo d’indossarlo con la tunica di Padre Ivo, quella rossa e dorata del giorno di Natale, quella che gli lavava mia madre e che un giorno avevo rubato dal cesto della biancheria sporca e avevo infilato in fretta, in bagno, sul corpo livido, prima della doccia. Toccava terra, era un abito da sera. Era un vestito che avrei indossato volentieri, se solo me lo avessero permesso: avrei dominato la scuola, il cortile, il palazzo. Con quell’abito e col turbante avrei avuto diritto al trono. Invece, Maria Teresa mi propose la parrucca; – Mettiti questa -, a bassa voce, io e lei nella camera da letto buia dei genitori, io e la parrucca bionda della madre che non sarebbe arrivata alle vacanze estive, noi due soltanto. La indossai e conobbi il piacere, un piacere accecante, assoluto e doloroso, un piacere segreto. Nello specchio, ero io, io con la parrucca bionda, io che finalmente mi assomigliavo. Se solo avessi potuto truccarmi, finalmente avrei potuto riconoscermi, aderire alla mia persona, senza errori, senza scuciture, aderire e basta. Qualche volta l’ho fatto, truccarmi, dico, ingrossarmi la bocca col rossetto, farmela più felice, più audace pure. Col rossetto, l’ho capito troppo tardi, non balbettavo più. Hai visto, mamma, hai visto? Se me lo avessi permesso prima, avrei avuto voti migliori; se mi avessi dato ascolto, non avrei ripetuto la seconda media due volte. Se mi avessi guardato bene, avresti capito. Lo avreste capito anche voi, a dire il vero, ma siete come mia madre, allora ve lo dico: mi chiamo Michele e sono nato femmina.

Non era vero. Avevo quattordici anni quando lo dissi a mia madre, quando da lei pretesi che mi chiamasse Jessica, che mi chiamasse Maria, chiamami Maria, sono la Madonna, sono una madre vergine, ma pur sempre madre, sono una santa, una martire, dopotutto non sto soffrendo come una donna pronta al rogo? No, non era vero, mia madre mi disse che stavo mentendo, sono solo menzogne, Michele caro, il tuo nome è un’eredità e l’eredità si accetta, l’eredità si prende, è un regalo che si paga caro, tanto più caro quanto care ti sono le persone che te lo confezionano, che te lo indirizzano come un biglietto, come una chiamata alle armi, come una multa. E il mio nome, Michele, me lo aveva dato mio padre, la conosci tu una persona più cara del padre, più amata del padre? La conosci? Non la conosco perché non ne ho idea, perché mio padre mi ha dato il nome soltanto e poi m’ha lasciato – l’ha lasciata, ha abbandonato mia madre, ma un figlio maschio conta più d’una moglie, un erede vale più dell’amore -, ha preteso il battesimo e subito s’è sconfessato. Non ero una donna, non ero Veronica, né Maria Maddalena – lei soprattutto, avrei voluto essere lei, prostituta e santa, desiderata, amata sopra tutte. Ero Michele. Non ero nato femmina, sebbene quella fosse stata la mia certezza per anni, sebbene in quello avessi creduto come si crede in dio. Al mio essere femmina m’ero affidato con la cecità con cui ci si consegna alla fede, e adesso scoprivo che niente era vero, e adesso mia madre mi svelava l’inganno. Il mio essere femmina era una bugia, era una favola dell’orrore, era uno scherzo che non fa ridere nessuno. Così mi disse mia madre, così decise: se avessi mentito ancora, se l’avessi ripetuto – essere femmina come il dogma della trinità da rinnegare –, lei m’avrebbe lasciato, condannandomi al disconoscimento assoluto, all’inferno: le fiamme che polverizzano quel che resta dell’amore primordiale. E se anche lei fosse sparita, se anche mia madre avesse fatto come mio padre, io non sarei stata più niente, non sarei stato più niente, avrei smesso di esistere. Nella solitudine non c’è nessuno a riconoscerci. Da chi avrei imparato, allora? I gesti di chi avrei imitato, ricalcato, copiato senza capire, come le donne che anticipano le parole del prete senza averne il potere, come le levatrici che prima fanno partorire la giumenta e poi la propria sorella, come i neonati, che chiudono gli occhi perché vedono la madre chiudere gli occhi, chiuderli per non vedere l’orrore del figlio che hanno messo al mondo, della creatura che avevano immaginato prodigiosa e invece è solo umana? Così obbedii, così tornai Michele; così mi sconfessai, ero nato femmina, ma mia madre m’aveva messo davanti allo specchio e m’aveva mostrato l’evidenza. Provai a obiettare, provai a raccontarle del piacere che avevo provato indossando una parrucca, provai a spiegarle il desiderio d’essere sirena, ballerina, sposa con l’abito bianco e il velo sulla faccia, ma lei rise fino a gelarmi. Il velo, disse, il velo, in effetti, mi sarebbe servito per coprire la barba che mi stava nascendo sulle guance, che avrei voluto truccare, i baffi, che mi avrebbero sformato la bocca, l’acne che m’avrebbe sfigurato. – Ti ci vuole, il velo, ah se ti ci vuole! -, e si divertiva, e a me veniva da piangere, e quando mi veniva da piangere, ciò che avevo tra le gambe mi s’irrigidiva contro i pantaloni e negava prepotente la mia identità, la mia natura, le mie ambizioni.

Accettai. Chiusi gli occhi e ridivenni maschio, aprii la bocca e mi ci ritrovai dentro la lingua di Carlotta, quella di Adele, di Sara, di Manuela. Una volta, per sbaglio baciai Alberto e non fu una svista, fu che lo volevamo entrambi, ma lui subito mi denunciò, e da amante divenne spia, e da amore fu subito odio – perciò l’ho chiamato sbaglio. Non seppi difendermi, la mia lingua, lesta come una danzatrice nelle bocche degli altri, s’incagliava nell’aria aperta, il contatto con le parole la paralizzava, la rendeva un pesce che non nuota più, che galleggia in superficie e che non puoi far altro che consegnare alla pattumiera. La balbuzie mi rese colpevole, risibile, la balbuzie mi punì col disamore. Di nuovo chiusi gli occhi e fui maschio; imparai il sesso al buio, imparai l’amore e qualche volta pure lo provai. Per Antonio, per Ivan, che non lo seppero mai. Per Roberto, che usciva dal seminario apposta per confessarmi e con me si arrendeva, l’ave maria finivamo per recitarla insieme, alla fine di tutto, lui in ginocchio e io disteso, gli occhi al soffitto, affinché non capisse che gl’invidiavo la tonaca che un giorno avrebbe indossato, gliela invidiavo come fosse stato un abito da sposa – Carolina di Monaco ne aveva avuti tre: volevo essere lei. Lo amavo, Roberto, e, per suo tramite, amavo i paramenti sfavillanti che a me erano negati e che a lui erano promessi, quelle vesti ampie da nasconderci una vita, che mai avevo smesso di desiderare. Roberto invece si stancò presto, di me e della tonaca, che ancora non aveva vestito, e si sposò, promise fedeltà a una donna e io feci come lui, e cercai d’imitarlo, come anni prima avevo fatto con mia madre, con la madre di Maria Teresa, con zia Ottavia. Anna si chiamava, e l’amai, l’amo tuttora, anche se adesso lei mi detesta, anche se adesso forse mi ha dimenticato per disperazione, per rabbia, per sopravvivenza. Se mi detesti, Anna, ti perdono. Ti capisco, non potrei fare diversamente da te. Dopotutto, tu e io ci assomigliamo: entrambi ci siamo sposati alla cieca. Tu non hai visto ch’ero una donna, io non ho visto che non sapevi essere madre. Che non potevi, che qualcosa dentro al tuo corpo non funzionava. Perciò t’ho tradita, e per lo stesso motivo ho tradito me stesso: ho cercato una donna e con lei t’ho rimpiazzata. Ho cercato un’altra, perché di lei, non da lei, volevo i figli, perché di lei volevo prendere il posto, e per un po’ m’è riuscito. Quegli anni, quel periodo in cui andavo a casa di Rita – così si chiamava l’altra – e le addormentavo le gemelle, e me le stringevo al seno e fingevo di allattarle, come avevo visto fare le altre, come avrei voluto saper fare io, quegli anni sono stati i più felici della mia vita. Le nutrivo, le gemelle, le lavavo, cambiavo loro i vestiti, intrecciavo i capelli; ero una gatta, ero un gabbiano madre, ero una giumenta. Ero mia madre, e, come la gatta, come la gabbiana, come la giumenta, come mia madre – proprio come lei – sono diventata cattiva, le figlie di Rita le ho detestate per averle amate troppo, per averle sentite troppo mie. Questo succede a diventar buoni, questo succede a essere buone madri: l’amore non lo controlli più e diventa come il latte che scordi sul fuoco, che sale, che freme, che tracima, che cola giù e tutto invade. Quando te ne accorgi, quando spegni, quando tutto s’è freddato, quando provi a infrangere la pellicola ch’è cresciuta in superficie, non trovi più il bianco che avevi versato. Il latte è sparito. Trovi altro: quell’altro è l’odio, quell’altro è ciò che ha preso il posto dell’amore.

Così è finita con Rita, con le gemelle; così è finita con te. Così è finita con tutto.

Adesso vivo da solo, vivo con due cardellini che cantano nella gabbia. Lo so che non potrei, lo so ch’è vietato: i cardellini li ho trafugati, di loro ho fatto ciò che non ho potuto fare delle figlie di Rita. Non me lo dite, so bene d’aver sbagliato, ma, siate sinceri, avevo scelta? Agli abiti da donna ho rinunciato da tempo: sono nato femmina, ma mia madre ha detto che non è vero, che ho mentito e io ho voluto crederle. Oggi però mia madre è morta; quando l’ho saputo, m’è venuta fame, allora ho aperto il frigorifero, e non c’era niente, avevo fame e non c’era niente. L’ho riaperto e di nuovo, quella luce sinistra m’ha inondato la faccia, così ho aperto la gabbia dei cardellini e quelli si sono spaventati. Li ho portati sul davanzale, – Uscite -, ho ordinato loro, – Avanti, uscite -, ma avevano paura, così ho chiuso gli occhi e ho scosso la gabbia, terremoto nel mondo dei cardellini, – Avanti, vi prego -. Poi l’ho posata sul tavolo. L’ho riaperta ed era vuota; ho provato sollievo.

La fame, però, quella era rimasta: era la fame d’una madre dopo la fatica del parto.