Rodolfo Valentino

– Lo conosci Rodolfo Valentino? -, mi chiese mio nonno, mentre faceva scorrere l’acqua sul pettine e poi se lo passava tra i capelli. La porta del bagno era aperta, ne veniva fuori un vapore intriso di dopobarba e di colonia al vetiver, quella che comprava al mercato, la domenica mattina, riponendo il flacone di vetro tra i porri, i formaggi avvolti nella carta di giornale, il pane e le prime susine della stagione. – Lo conosci o no? -, insistette, e con la mano ripulì lo specchio dalla condensa, si sporse a guardarsi meglio, slacciò un altro bottone della camicia. Scossi la testa, – No -, ammisi, – Non lo conosco -. – Oh -, commentò lui, – E non te le insegnano queste cose a scuola? Che scuola fai? -, e si voltò verso di me, le sopracciglia spioventi, il naso sottile, gli occhi grigi. Non conoscevo nessun altro con gli occhi grigi; mia madre li aveva verdi ed era fiera quando qualcuno le diceva che erano belli. – Che begli occhi ha, signora -, e mia madre li socchiudeva, – Li ho presi da mio padre -, mentiva, – Abbiamo tutti gli occhi chiari in famiglia -, e si metteva a raccontare del blu di sua madre, di quello più intenso di suo fratello, di sua sorella, dei suoi nonni. – Tutti con questi occhi -, e tirava fuori le fototessere dal portafogli, le mostrava alla gente del sud, che si copriva la bocca con la mano per lo stupore. – Sono brutti -, commentò una volta Lidia, una donna dritta, sempre vestita di nero, che abitava in fondo al cortile. – Sono brutti, sembrano gli occhi di un cieco, che non guardano da nessuna parte -, e mia madre si arrabbiò, si riprese le fotografie, le infilò in fretta nella borsa.

– Rodolfo Valentino -, riprese mio nonno, – È un uomo molto bello. Fa l’attore, e io gli assomiglio -, mi spiegò. – Però, mi vedi bene? Sono più bello io. Perché ho i muscoli, vado sul cantiere -, e si inginocchiò, portò i suoi occhi bellissimi all’altezza dei miei. – Sono come Rodolfo Valentino, ma un po’ meglio -, e sorrise, mi pizzicò una guancia con le sue dita ruvide, piene di anelli. Gli mancava un premolare, in alto a sinistra, potevo vedere la parete laterale del dente posteriore.

A mio nonno piacevano i gioielli: anelli d’oro, un braccialetto col suo nome inciso, una collana con la medaglia della madonna, il numero tredici e un corno napoletano. Più tardi negli anni, avrebbe aggiunto anche la fede nuziale, perché era ingrassato e non gli entrava più bene come una volta, quindi si era tenuto gli altri anelli, spostandoli dal medio all’anulare e dall’anulare al mignolo. Prima di uscire, gli piaceva sedersi al tavolo della cucina e indossarli uno a uno, come se stesse vestendo un’armatura o la divisa di un corpo speciale. – Vado a messa -, diceva poi, e se ne andava; ogni estate, l’orario della messa veniva anticipato di un poco. Quando stavo per compiere diciott’anni, mio nonno usciva al mattino intorno alle sette e tornava, assonnato, prima dell’ora di pranzo.

Non era religioso mio nonno; quando era costretto ad andare in chiesa – funerali, i pochi matrimoni cui veniva invitato, il battesimo dei miei cugini, di cui non ho mai imparato i nomi, e che avevano tutti gli occhi blu – si sedeva in fondo e guardava le donne. Commentava ad alta voce, diceva: – Uh, quella è rimasta vedova l’altr’anno -, oppure: – Hai visto Maria dei Gagliardi come si è fatta bella? -, e Maria aveva sedici, diciassette anni, un seno prepotente e i vestiti vecchi della sorella maggiore che le tiravano sul petto e sul sedere, perché era cresciuta più in fretta delle previsioni di sua madre. Io gli restavo accanto, mi alzavo e mi sedevo insieme agli altri, cantavo muovendo appena le labbra e sorvegliavo mio nonno; fino a un certo punto, anche io l’ho trovato bellissimo, più bello di Rodolfo Valentino. Poi, nel mezzo della salita dell’adolescenza, ho incominciato a vergognarmene, a evitarlo, – Aiutami a mettermi la collana -, mi chiedeva, e io scappavo via, l’odore della sua colonia dozzinale mi ripugnava. – Andiamo a braccetto al mercato -, mi invitava, e io m’inventavo amici, impegni, compiti che avevo già fatto; – Non posso -, declinavo, e me ne andavo. Lo guardavo uscire al mattino, andare a messa, che in realtà voleva dire andare al bar, riempirsi la vescica di birra e la bocca di parole, che perdevano senso poco a poco ma acquistavano volume, si prendevano lo spazio che una volta era stato dei denti.

Quando è morto, avevo poco più di vent’anni e vivevo in un’altra città; non lo vedevo da tempo, lui si era ammalato e da piccolo che era, si era trasformato in una meringa, largo e biancastro, con tutti i capelli sulla testa, la bocca buia e gli occhi grigi come la pelliccia di un topo di fogna. Il giorno del funerale, mia madre mi mandò una sua fotografia del cimitero, che era un falso, perché risaliva a molti anni prima, alle estati in cui lo guardavo pettinarsi davanti allo specchio del bagno e sorridermi, al periodo in cui, qualche volta, andavo a messa con lui e mi sedevo al bancone del bar a mangiare le patatine, mentre lui scambiava parole che non capivo con chiunque gli si avvicinasse.

Non avevo mai visto che faccia avesse, Rodolfo Valentino, così lo cercai su internet; scrissi “Rodolfo Valentino”, e aspettai che il viso di mio nonno comparisse sullo schermo, di tre quarti, con gli occhi grigi e quei bei capelli umidi, ma lui non venne e io ci rimasi male. Il vero Rodolfo Valentino non era mio nonno: era un altro uomo, forse più bello o più brutto, forse persino più basso. Ma diverso.

Mi chiamo Anna, ho quarantadue anni e gli occhi marroni. Come Rodolfo Valentino.