L’ergastolo

– Me l’avevi promesso, ma’ -, le ricordai, e mi fermai un passo davanti a lei, supplicandola controsole; – Avevi detto che sabato andavamo a vederli, avevi detto: sabato ti ci porto -, e gli occhi mi divennero liquidi, ma non sapevo se fossero lacrime o l’eccesso di luce, la mia determinazione a non distogliere lo sguardo dalla faccia di mia madre. Lei riprese a camminare, da sola, davanti a me; la vidi avanzare, la gonna a pieghe blu che le scendeva fino alle caviglie e la maglia a righe, i capelli castani con la permanente e quella borsa nera, di camoscio. Era una borsa invernale, ma lei se la portava dietro anche in estate. – Mi fai caldo, con quella borsa -, le aveva detto una volta Arcangela, che usciva di casa mentre noi rientravamo, e stava scendendo lentamente le scale, mettendosi di sbieco sui gradini, la schiena rivolta al muro. – E poi, nera: non lo sai che il nero fa diventare ciechi, Mari’? -, e mia madre mi aveva stretto la mano più forte, come a ordinarmi di star zitta, di non dire niente e di restarle accanto a difenderla. Ci eravamo appiattite contro la ringhiera e avevamo aspettato che Arcangela se ne andasse, portando il suo corpo pesante come una poltrona fuori dal portone, e poi lei mi aveva lasciato la mano. Lo aveva fatto all’improvviso, con un gesto breve e privo di punteggiatura, come a volermi dire che non c’erano più ragioni di tenermi vicina, adesso che eravamo soltanto noi due.

Corsi dietro a mia madre, le posai una mano sulla vita e sentii, attraverso il tessuto della maglia, la spilla da balia che le chiudeva la gonna al posto del bottone; – Vai tu -, mi disse, – Io ti aspetto qua -, e mi mostrò con un cenno del mento il centro del mercato, un punto in mezzo alle urla degli ambulanti e della gente che comprava. – Vai -, ripeté.

La bancarella che vendeva animali si trovava vicino alla fontana, tra una famiglia sarda che vendeva biancheria intima e la vecchia delle scope e dei detersivi; si trovava nel punto più nobile dello stradone, di fronte alla Chiesa Matrice e al forno. Ogni sabato, una piccola folla si spingeva per guardare gli agnellini nelle gabbie, i conigli immobili nelle cassette da frutta, i cani che piangevano nelle loro scatole bucherellate e i pesci rossi nei contenitori di vetro, gli stessi in cui mia madre conservava in frigo gli avanzi di pasta e legumi. Mi avvicinai, infilai una mano tra le sbarre, cercando di trattenere il respiro per non sentire quell’odore infernale, e poi me ne andai, corsi ad affondare il naso nella schiena di mia madre, che sapeva di sapone da bucato e di balsamo al cocco. – Sta in una gabbia così? Come quei cani, come le pecore -, le chiesi, mentre tornavamo a casa; portava una busta della spesa tra le braccia, come fosse stato un figlio o un agnellino della bancarella, perché le si erano rotti i manici. – Chi? -, domandò, senza guardarmi. – Il babbo -, le risposi, e spinsi il portone che qualcuno aveva lasciato accostato, forse Arcangela, che non ci vedeva più molto bene, e per infilare la chiave nella serratura si accigliava come se avesse in mano ago e filo, e poi imprecava, malediceva tutti i vicini e Santa Lucia.

Mio padre era in carcere; me lo aveva detto mia madre, alla fine di un pomeriggio in cui l’avevo sfinita di domande, di preghiere, – E dimmelo, ma’ -, imploravo, – Dimmelo dove sta mio padre -. Lei dapprima mi aveva dato la solita risposta, – Sta lontano, a lavorare -, mi aveva raccontato, e io avevo insistito, – Lontano dove? -, e lei era stata gentile, – Sta a Modena. Vieni, facciamo merenda, sono avanzate le polpette al sugo, ieri sera -, ma io non ne avevo voluto sapere. – È una bugia, ma’, lo so che è una bugia -, ero diventata testarda, cattiva, – Dimmelo, dove sta, tanto lo so che non sta a Modena -, e più glielo ripetevo, più crudele diventavo, e più lei era gentile, più volevo demolirla, strapparle quella gonna blu a pieghe, e poi stenderne i brandelli sul balcone, con le mollette di legno. – Me l’ha detto Arcangela che sei una bugiarda -, avevo mentito, e le labbra le erano sparite dalla faccia, gli occhi le erano diventati asciutti; – Sta in galera -, aveva ammesso. – Sei contenta adesso? Siete contente, tu e Arcangela? -, e non aveva aggiunto altro, se ne era andata in cucina e si era messa a preparare le uova alla cipolla, per cena, anche se erano soltanto le cinque di pomeriggio. Da quella volta, di mio padre non avevamo parlato più.

Intanto, erano passate due stagioni, forse tre, e io non avevo smesso mai di pensarci; mi ero immaginata mio padre vestito da rapinatore, col passamontagna e la tuta nera, me l’ero immaginato usuraio, col registro della miseria del quartiere, e poi sicario, mafioso, brigatista. Non l’avevo mai conosciuto, mio padre; – Lavora lontano -, mi aveva detto mia madre, sin da quando ero bambina, – Ci manda i soldi per farti andare a scuola -, e io l’avevo sempre ammirato, gli avevo mostrato le pagelle e i disegni con l’acquerello, rivolgendomi a una foto tagliata a metà che mia madre conservava nel primo cassetto del comodino. Sembrava bello mio padre, da quell’unico ritratto che avevo di lui, un ragazzone biondo con troppi capelli e un grande naso, la mandibola sporgente e gli occhi buoni, grandi, come i miei. Non riuscivo a decidere se saperlo un criminale mi piacesse o meno, se fosse una buona notizia o una sciagura, ma non posi altre domande a mia madre; quando le chiesi se la prigione assomigliasse alla gabbia degli agnelli, lei non mi rispose, fece finta di non aver sentito e, una volta a casa, mi mancò il coraggio di sfidare di nuovo la sua pazienza.

Il giorno in cui compii quattordici anni, mia madre venne a svegliarmi presto. Era il mese di giugno, la scuola era appena finita, ma quell’anno non avevo fatto vedere i voti buoni alla foto di mio padre, non avevo cercato l’approvazione monocorde del suo sorriso a bocca chiusa. Ero diventata troppo grande anche per quello e avevo smesso di immaginare la sua vita, temendo che, se ne avessi saputo di più, avrei finito col vergognarmene. Quando mi chiedevano di lui, rispondevo con la vecchia versione, quella più incolore, – Sta a Modena, a lavorare -, e nemmeno sapevo dove si trovasse, Modena. – Oggi andiamo a trovare tuo padre -, mi disse mia madre quel giorno, e uscimmo di casa senza fare colazione, prendemmo la macchina; ci fermammo in una stazione di servizio verso le nove, mangiammo un tramezzino e ci rimettemmo in viaggio. Non riuscivo a credere che avrei conosciuto un delinquente, di lì a poco; cosa avrebbe pensato di sua figlia e come aveva potuto mia madre portarmi da lui così malvestita, così spettinata, così brutta?

Arrivammo a destinazione verso mezzogiorno; mia madre parcheggiò davanti a una casa bassa, una specie di villetta di provincia, e appoggiò la schiena contro il sedile. Aspettammo meno di un’ora, poi vedemmo uscire un uomo stempiato, con un grande naso, con la mascella sporgente; teneva per mano un bambino, avrà avuto sei o sette anni. Dietro di lui si trascinava una ragazzina, grosso modo della mia età, con uno zaino rosa sulle spalle. – È uscito dalla galera? -, le chiesi, sottovoce. – No -, mi rispose lei. – Non può: si è preso l’ergastolo -, e rimanemmo immobili finché loro tre non entrarono in una station wagon e scomparvero oltre la curva.

Mia madre mise in moto, abbassammo i finestrini: c’era vento e il mare non doveva essere lontano.