Anna

– Secondo piano, porta a sinistra -, disse una voce nel citofono; sembrava quella di una bambina, e la donna delle consegne sperò avesse i soldi per pagare, e che non avesse telefonato per ordinare una pizza all’insaputa dei genitori. Quelle cose succedevano, ogni tanto, soprattutto in certi quartieri, e ogni volta era difficile spiegare al suo capo che aveva dovuto consegnare una pizza a vuoto, e che l’aveva lasciata lo stesso, tanto ormai era troppo tardi per portarsela indietro, si sarebbe raffreddata e avrebbero dovuto buttarla via. Entrò nel portone di corsa, spinse la bicicletta dentro, e la appoggiò sulla parete scrostata, sotto le cassette delle lettere; salì le scale a piedi, scongiurando che nessuno gliela rubasse. Era la prima volta che qualcuno chiamava da quell’indirizzo. – Anna! -, gridava una voce, da un appartamento al primo piano, – Anna, Anna! -, e la donna pensò a sua madre, a quando invocava il suo nome, di notte, dall’altra stanza, assecondando un delirio che tutti avevano scambiato per prepotenza senile e che invece si chiamava demenza. Consegnò la pizza, ad accoglierla venne un ragazzone sui trent’anni, con una banconota in una mano e una moneta nell’altra. – Questi sono per lei -, le mormorò, e la faccia gli si incendiò di vergogna e di un’acne tardiva; le premette gli spiccioli sul palmo. – Anna!, Anna, Anna! -, gridava la voce, dal piano di sotto. Era così possente e nitida che sembrava ce l’avessero alle spalle, una vecchia rancorosa distesa in un letto, con l’ostinazione di chi ha imparato a esercitare un potere. Una signora minuta comparve in corridoio, – Non ci faccia caso -, disse, e la donna delle consegne riconobbe il timbro infantile di chi le aveva risposto al citofono, – Noi ormai ci siamo abituati -, aggiunse, e si avvicinò alla porta con un gesto conclusivo, la richiuse senza salutare.

– Anna! -, si udì ancora, e un’altra voce sovrastò il lamento; la donna delle consegne rallentò la discesa per ascoltare meglio, – Non sono Anna, hai capito? Non mi chiamo così! -. Una porta si aprì di colpo, la donna corse verso la bicicletta e se ne andò, stringendo ancora il denaro nella mano sinistra. Più tardi, alla fine del turno, pedalò fino a quel portone, si fermò nella strada, trattenne il respiro. – Anna, Anna! -, diceva ancora quella voce, ma il suono giungeva soffocato, si confondeva coi rumori ovattati della notte, e la donna si domandò se fosse reale o se quel lamento le si fosse annidato nelle orecchie, per ricordarle quanto era stata egoista con sua madre e quanto, ad un certo punto, aveva desiderato che morisse.

Nora aveva sessantacinque anni e abitava da sola; aveva perduto la memoria e il senno senza preavviso, una mattina, dieci anni prima. Era uscita a fare la spesa, come tutti i sabati, si era fermata al forno per comprarsi la focaccia, che poi mangiava in piedi, divaricando appena le gambe e sporgendosi in avanti, per impedire ai pomodori di finirle sulle scarpe. Poi era uscita di senno, si era perduta sulla strada di casa e nessuno ha mai saputo spiegare come fosse stato possibile; l’avevano trovata seduta su una panchina gli agenti della municipale, con le borse della spesa e i fiori, che piangeva, invocava qualcosa, o qualcuno, non era chiaro. L’avevano portata in ospedale, ma le radiografie avevano restituito l’immagine di un corpo intatto e forte: stava bene, Nora, non aveva nulla di rotto. Era la sua testa che aveva smesso di funzionare, le si era inceppato il meccanismo del tempo, o forse quello della memoria, ed era tornata una bambina, piccola e capricciosa, in quel corpo da adulta, che si era rapidamente rimpicciolito. Avevano iniziato a chiamarla Noretta, Norina, le avevano mandato la prima badante, poi la seconda, poi la terza; poi avevano perso il conto, perché Nora era esile e testarda, gridava, piangeva tutto il giorno, sembrava non perdere mai la voce. – Anna! -, gridava, – Anna! -, e le donne che venivano ad assisterla non ci facevano caso, spesso l’italiano lo parlavano poco e non si offendevano quando Nora le ribattezzava, anzi: si sentivano adottate da quella vecchia così giovane, cinquantacinque, sessant’anni appena, così bella, che implorava attenzione e le chiamava con un nome estraneo. – Anna! -, diceva, e loro dapprima sorridevano, – Che c’è? -, le chiedevano, e lei continuava a urlare, così forte che alla fine non ne potevano più, se ne andavano, e c’era già un’altra Anna pronta a sostituirle, ad andarsene pochi mesi più tardi. Non aveva figli Nora, aveva sempre vissuto con la madre, che l’aveva avuta tardi, quando già credeva da un pezzo che non avrebbe più potuto; l’aveva concepita con un avvocato, anche se qualcun altro diceva che Nora fosse figlia del prete, del fruttivendolo, persino del dirimpettaio. Tuttavia, a quella madre anziana che l’aveva fatta nascere illegittima, Nora aveva dedicato la vita e non si era sposata, era rimasta sola; quando la coscienza le si era scollata dal corpo, non era stato facile per nessuno starle accanto. – Anna! -, gridava, e la sua ultima badante si arrabbiava, – Non mi chiamo così, non sono Anna! -, la dominava con la sua bella voce da soprano ignaro, – Non sono Anna, no-oh-. Nora per un attimo taceva, la guardava negli occhi, sembrava capire: – Vira, mi chiamo Vira: ripeti. Vi-ra -, e dal letto vedeva accendersi due occhi enormi, che si erano mangiati la faccia, e brillavano di lacrime che nessuno si curava di asciugare. – Vira! -, ripeteva la badante, e le carezzava i capelli, – Brava, hai capito -; le si sedeva accanto, la tirava su, – Brava, signora, brava Norina -, poi usciva dalla stanza, andava a occuparsi della cena, dei figli che le scrivevano sul cellulare, del bagno ancora da pulire. – Anna, Anna! -, si disperava Nora, e il lamento ricominciava, continuava per tutta la notte, senza mai arrochirle la voce, come se le urla fossero un lubrificante per quelle corde vocali impazzite, per quella gola desiderosa di attenzione.

Dopo quella prima sera, la donna della pizzeria tornò sotto casa di Nora; la ascoltava implorare, disperarsi senza tregua, e pensava a sua madre, le veniva da piangere. – Anna -, gridava la voce, e la badante le rimandava indietro la preghiera, – Non sono Anna! -.

Una domenica mattina, tornò sotto il portone, si fece coraggio, suonò il campanello; – Debbo consegnare una pizza -, disse al citofono, e la badante venne ad aprire, la vide con le mani vuote. – Non abbiamo chiesto niente, non vogliamo niente -, disse, e alle sue spalle Nora continuava a chiamare Anna, tra i singhiozzi; sul viso di Vira, poté distinguere fastidio, rassegnazione, forse persino una punta di tristezza. – Non sono io, Anna -, ammise, piano, e la donna delle consegne annuì, le disse che lo sapeva, che perciò era venuta. – Non sta chiamando nessuna Anna, non dice: Anna!, quando grida -. Vira la guardò di sbieco, fece per chiudere. – Aspetti, mi ascolti. Non dice: Anna. Dice: mamma. Cerca sua madre -, e si voltò di scatto, se ne andò, spingendo la bicicletta a piedi, per paura di perdere l’equilibrio.