Errore di calcolo

Le sue preferite erano le donne. Soprattutto se avevano più di sessantacinque anni, un numero variabile di ex mariti, figli e nipoti e, possibilmente, un’incontenibile passione per le vite degli altri. Più di tutto, apprezzava la loro generosità, la totale assenza di avarizia nell’ingigantire tresche, vizi e tradimenti, per consegnarli al silenzio professionale del suo studio, una volta a settimana. Di solito – ma questo ci aveva messo tempo a capirlo -, di solito parlare degli altri era un modo per parlare di sé. La loro era, per così dire, una confessione mascherata, una terza persona fittizia che la diceva lunga sui propri non detti, sui meschini desideri taciuti, e su una fitta schiera di cadaveri di aspirazioni impossibili da ammettere, e per questo ben stipati in ampi armadi immaginari. Alla fine della seduta, dopo essersi rivestite, lo ringraziavano sempre, gli dicevano: – Sapesse che liberazione, dottore, adesso mi sento un’altra persona -, e lui, Emilio, non era sicuro che fosse un modo per spiegargli che stavano meglio. Il benessere che avevano in mente non era meramente fisico, non riguardava i dolori al ginocchio o alla spalla destra, non c’entrava nulla con le emicranie inspiegabili del pomeriggio. C’era qualcos’altro e questo a lui non dispiaceva. Anzi: era grato a tutti quelli che, nel momento in cui si sdraiavano sul lettino, emettevano quel sospiro che segnala lo sforzo, o il sollievo, o la soddisfazione degli anziani, si alleggerivano del peso di chi non può più trattenersi e lascia andare i segreti insieme al dolore, alle contratture temporanee, ai malanni passeggeri.

Emilio aveva aperto lo studio in paese pochi anni prima, subito dopo la specializzazione e la fine di un amore con una donna che, al contrario delle sue pazienti, gli aveva rivelato troppo poco della sua vita. Aveva omesso l’esistenza di un figlio, di un matrimonio traballante ma non in pericolo, di una serie di minuzie che, guardate meglio, avevano mostrato la loro natura strutturale, in contraddizione con le alzate di spalle con cui lei giustificava ogni cosa. Solo che, allora, Emilio era uno studente, uno più attento alle note a piè di pagina che al testo, e quando aveva scoperto di aver trascurato il significato principale a vantaggio di dettagli di poco conto, se l’era presa, ne aveva sofferto, ed era andato oltre. Era passato a un altro amore come si passa a un altro esame, incassando l’insufficienza e concedendosi il lusso di una parentesi di tempo di recupero, prima di tornare a ragionare sulla recente sconfitta.

– Fai bene a installarti in paese -, aveva commentato sua madre, quando lui aveva accennato all’intenzione di mettersi in proprio; – In paese è pieno di vecchi, e un buon osteopata ha bisogno di corpi malandati per lavorare -, aveva commentato. – Vedrai: i loro acciacchi saranno la tua ricchezza -, aveva concluso, fregandosi la punta del naso con le mani giunte, come quando, in gioielleria, riusciva a vendere un costoso orologio, un anello di fidanzamento che valeva tre mesi di lavoro di un operaio o una medaglietta della madonna spessa come una moneta da cento lire. Ogni tanto, mentre accoglieva un nuovo paziente, Emilio non poteva fare a meno di immaginarselo acquattato nella scatola di velluto di una collanina, col logo del negozio di sua madre impresso sul dorso e una garanzia di autenticità firmata e timbrata dalla genitrice. Questo pensiero, che all’inizio lo aveva fatto sorridere, man mano che passava il tempo iniziava ad atterrirlo.

Una mattina, si presentò alla sua porta una nuova paziente: l’aveva vista parcheggiare di traverso e poi urtare il bidone della spazzatura col muso dell’auto, e l’aveva accolta guardingo, col sospetto di chi non sa ancora cosa aspettarsi, ma già teme le premesse. Invece, lei gli aveva descritto con calma un fastidio all’anca sinistra, che diventava una scarica di dolore insopportabile quando stava seduta. Per tutta la durata della visita, la donna parlò poco; fu lui a interrogarla sulle sue abitudini, sulle sue preferenze, sul suo passato. Lei, tuttavia, fu parsimoniosa, se non avara: gli raccontò che abitava in un paese vicino, in una villetta bifamiliare, in cui viveva da sola, da quando il marito se n’era andato: era morto con il petto attraversato da quattro cicatrici ancora arrossate, ma il cuore non ce l’aveva fatta lo stesso.

Tornò, puntuale, tutti i venerdì per i due mesi successivi; come la prima volta, si accomodava sul lettino sbuffando, chiudeva gli occhi e aspettava le domande del dottore. Non rispondeva sempre, qualche volta taceva, poi riprendeva dopo qualche minuto di silenzio; gli rivelò che non aveva avuto figli, che aveva insegnato statistica all’università fino al semestre precedente e che l’uomo che l’aveva lasciata per un infarto, in realtà, non era suo marito. – È che abbiamo vissuto insieme per trent’anni e, per me, capisce, era come, era come se… -, iniziò a raccontare. – L’idea del matrimonio non vi metteva d’accordo? -, azzardò Emilio, mentre si preparava a eseguire una manovra che, lo sapeva, l’avrebbe colta alla sprovvista e, probabilmente, l’avrebbe fatta piangere per la sorpresa. – Oh, no -, replicò lei, sottovoce. – Sono stata sposata, molti anni fa, prima di incontrare Mario. Ma col mio primo marito è finita male, eravamo giovani e sciocchi e abbiamo divorziato subito -, chiarì. – Siamo stati una delle prime coppie a beneficiare del divorzio -, aggiunse, e a Emilio parve di scorgere una punta di orgoglio nella sua voce. – E lei? -, gli domandò, subito dopo, – Lei è sposato, dottore? -, ma sembrò non ascoltarlo mentre lui diceva di no e che stava bene così. Non pianse dopo la manovra, né ringraziò prima di andarsene: non ringraziava mai; si limitava a salutare e a uscire, camminando in fretta e sbattendo poi con foga la portiera della sua Yaris.

Quella fu l’ultima volta che si fece vedere.

Annullò gli appuntamenti successivi senza dare spiegazioni e non ne fissò di nuovi; scomparve come era arrivata ed Emilio se ne rattristò. Le sue giornate non cambiarono, non si svuotarono delle storie degli altri, quelle che i suoi pazienti gli spiegavano davanti come carte geografiche, né ebbe modo di sapere nulla su quella donna sdegnosa, dalla riservatezza maligna e dalle parole spedite. Poco alla volta, se ne dimenticò, preso dalle articolazioni indocili di decine di estranei, trascinato nei risvolti scontati delle altrui sommosse famigliari.

La riconobbe un anno dopo, nel parcheggio di un ipermercato; la scorse in piedi davanti al portabagagli della sua auto, intenta a stipare rabbiosamente le borse della spesa. Andò verso di lei, si offrì di aiutarla: – No, grazie -, gli rispose, – non mi sono risposata apposta, non mi serve un contratto di assistenza con un uomo -, gli spiegò, ostile. Emilio sorrise, accennò all’uomo con cui lei aveva tuttavia vissuto, cercò di coglierla in fallo. – Mi dispiace di non averla più incontrata -, dichiarò, alla fine, e la donna fece un passo indietro, come per poterlo guardare meglio. Aveva gli occhi umidi, ma non di pianto: di collera, piuttosto, di rancore inespresso. Allora gli consegnò la verità, come per ripicca: gli disse che lei, Annarosa, era stata la prima moglie di suo padre, e che quell’uomo che lei aveva chiamato marito per due anni soltanto, poi, qualche tempo dopo, aveva sposato un’altra donna e aveva concepito lui, Emilio. Lo rassicurò: non ce l’aveva con suo padre, al contrario; dopotutto, era stata lei a lasciarlo, era stata lei ad annoiarsi per prima. Era solo che, adesso che era diventata vecchia, aveva iniziato a farsi due conti, ad applicare alla sua esistenza il rigore della statistica, e si era accorta che era difficile fare la tara degli amori e dei fallimenti passati e che le formule non riuscivano a risolvere tutti i problemi. La matematica, aveva scoperto, funziona soltanto con l’infinito, mentre la vita è banalmente finita, troppo volgare per la nobiltà dei numeri.

– E io che c’entro con mio padre? -, le chiese Emilio, indispettito, e lei sospirò d’insofferenza, ammise che era andata a cercarlo nel suo studio per capire se, tanto tempo prima, si fosse sbagliata, a divorziare. Poi tacque, socchiuse gli occhi. – Non mi ero sbagliata -, disse, – Adesso che ti ho conosciuto, mi sono ricordata il motivo per cui con tuo padre non è durata -, concluse, e rientrò in auto.

Non c’era nessun calcolo in quelle sue parole, eppure tutto tornava.