Tra donne

Il sacchetto di plastica mi colpì in mezzo al petto; feci per prenderlo al volo, ma cadde a terra e mia madre rise, mia nonna anche. Solo mia zia Antonia scosse la testa, – Certo che avete sempre voglia di scherzare! -, commentò, e fece schioccare la lingua sul palato, si chinò verso il pavimento, afferrò quel fagotto scricchiolante e ne estrasse il contenuto. Era un costume da bagno intero, rosso, incrociato sulla schiena; aveva ancora il cartellino attaccato davanti, che penzolava dalla sgambatura profonda. Immaginai il mio corpo dentro a quei misurati centimetri di tessuto, i peli del pube compressi dalla trama elastica e la mia carne pallida e soffice in esposizione; – Potevi prendermelo blu -, mormorai, guardandomi i piedi, ma mia madre sembrò non farci caso, – Dai, provalo! -, mi incitò, – Dai! Così vediamo se ti sta o se dobbiamo portarlo indietro -. – Dai! -, le fece eco mia zia, – Mettitelo! -, ma io le rivolsi uno sguardo supplicante. – Ti prego -, avrei voluto implorarla, – Ti prego, non mi tradire -, perché di solito lei era dalla mia parte, difendeva il protrarsi della mia timidezza infantile oltre le soglie della tarda adolescenza, contro gli attacchi adulti di mia madre e di mia nonna. – Tanto qua dentro siamo tutte donne -, insisté, e andò a chiudere la porta della cucina, come per impedire a un estraneo di intromettersi o come per rendermi inaccessibile ogni possibile via di fuga. Mi spogliai e indossai il costume, tirandomelo bene sulle spalle; – Non ti stringe troppo -, commentò mia madre, – Ti nasconde il giusto, va bene -, e poi rise, rise anche mia zia. – Meno male che ti entra -, concluse, – Era l’ultimo, sulla bancarella -, e aprì il frigorifero, si scostò di lato, in modo che la sua algida luce si espandesse sulle piastrelle in penombra. – Beviamoci un tè alla pesca -, propose, e già non esistevo più, la mia nudità era stata rimpiazzata da una bevanda di sottomarca eccessivamente zuccherata: potevo smettere di vergognarmi.

L’indomani partii per le vacanze; mia madre mi accompagnò alla fermata dell’autobus, – Mi raccomando -, mormorò prima che salissi a bordo, – Ricordati che quello è tuo padre, ma che lei non ti è niente -, e io annuii, lasciai che mi baciasse sulla tempia con le sue labbra screpolate e ruvide: mi venne da piangere, ma non sapevo se fosse tristezza o sollievo. Avevo diciassette anni, ne avrei compiuti diciotto a dicembre e vivevo con mia madre, con mia nonna e con zia Antonia, che faceva la maestra alle elementari e non si era mai sposata. – Te l’avevo detto come sono gli uomini -, aveva commentato, quando mia madre aveva annunciato che mio padre le aveva chiesto il divorzio, precisando che se andava a vivere con un’altra, – Te l’avevo detto come sono -, e mia madre aveva annuito, con gli occhi asciutti, ma non mi aveva spiegato niente e io non sapevo come fossero davvero gli uomini, non l’avevo ancora imparato. Avevo provato a chiederglielo, ma lei aveva scrollato le spalle, – Come tuo padre -, mi aveva risposto secca, sorridendo con un lato solo della bocca. Mia zia mi aveva guardata come per rimproverarmi di non capire un concetto chiaro, ma io mio padre lo vedevo poco e non sapevo come fosse, in realtà. Quell’anno, per la prima volta, mi aveva invitato a trascorrere il mese di agosto nella villa al mare che aveva con Ida, “la seconda donna”, come la chiamava mia madre; avevano avuto una bambina, due anni prima, proprio prima di sposarsi, sicché Ida aveva indossato l’abito bianco sul ventre pieno da sette mesi e mia madre aveva esultato. – Ben le sta! -, aveva sentenziato, – Un matrimonio che è finito prima ancora di iniziare -, aveva aggiunto mia zia, ma le foto della bambina e della sposa le avevano volute vedere lo stesso, avevano ingrandito le facce allargando pollice e indice sullo schermo del telefono e non avevano aggiunto niente.

Nella villa accanto a quella di mio padre c’era la famiglia di Adele, una mia compagna di scuola; erano quattro anni che osservavo i suoi gomiti aguzzi, pronti a ferire pur di farsi spazio e la pancia nuda, tra la cintura dei jeans e l’orlo del pullover. Era fiera e sfrontata, aveva i capelli che le scendevano oltre le scapole e una voce che riconoscevo anche quando bisbigliava; cercavo di imitare il suono delle sue parole e il modo in cui si passava la mano sulla nuca, come per scacciare un mio sguardo invadente. Nell’ora di ginnastica, le correvo accanto, lei non mi vedeva e ogni tanto mi spintonava, scherzava con me per scherzare con qualcun altro, ed ero felice di quel contatto fisico immeritato, ma non fiatavo per paura di rompere un equilibrio immaginario. Ritrovarla al mare mi riempì di un’angoscia soffocante; provai a nascondermi, seduta sul bordo della sdraio, sotto l’ombrellone, e Ida non capiva la mia paura, la scambiava, forse, per riserbo; – Sei così graziosa -, mi disse, il primo pomeriggio che passammo insieme, mentre teneva in braccio la sua bambina addormentata, e io mi morsi il labbro con gli incisivi, incredula, incapace di esprimere la mia gratitudine nei suoi confronti.

Adele venne a trovarmi quella sera, – Ti ho vista, Mele! -, esordì, – Qua, al mare, non te ne puoi stare mica all’ultimo banco -, e rise da sola, mi scostò i capelli dalla fronte. – Ci sei anche nei prossimi giorni? -, mi domandò, e non attese la risposta: dall’indomani mattina non mi lasciò più. Ci esponevamo al sole tutto il tempo, strette sul suo asciugamani verde; la mia pelle si arrossava in fretta e le vecchie smagliature da bianche diventavano lucenti, attiravano la luce e ne incorporavano il calore, che si propagava nel mio corpo, saliva verso la testa e premeva contro le tempie. Adele parlava, cantava le canzoni più detestabili che trasmettevano alla radio, mi trascinava con sé in acqua; – Il sale ti curerà -, mi gridava, e mi spruzzava il mare sulla schiena, mentre le spalle, il petto, le cosce mi si riempivano di bolle dolenti. Ida era inquieta, mi spalmava la crema sul viso e sulle gambe, prima di andare a dormire, – Ti verrà un’insolazione -, mi ripeteva, preoccupata, ma la sofferenza non mi faceva paura perché Adele se ne prendeva cura. – Ti devi bruciare sulla bruciatura, se vuoi guarire -, mi spiegava, seria, e poi si portava una mano alla bocca, mi passava le dita sulle ferite del sole. – Sai come diventerai bella alla fine dell’estate -, mi ripeteva, e io intanto riuscivo a vedere soltanto la mia pelle devastata, il derma indifeso e scarlatto, il costume che tirava troppo sul sedere, che si insinuava nella carne ed era l’unico scudo ancora capace di proteggermi, l’unica barriera fra me e Adele quando, incuranti delle conseguenze, ci sdraiavamo sotto il cielo di mezzogiorno. Mi chiamava “Mele”, preferendo il cognome al nome, come un’insegnante o come un’estranea; – Mele, vieni a vedere! -, e mi portava sotto la veranda di casa sua, mi mostrava il videoclip di una canzone sul telefono e intanto ballava: non l’avevo mai vista così goffa, le piante dei piedi callose e nude sul cemento vivo. Annuivo ai suoi entusiasmi, tenevo d’occhio silenziosamente il tubo della doccia che avevano in un angolo del cortile, sul retro, pensando al sollievo dell’acqua stillante sulla schiena, e Adele se ne accorse. – Cos’è, hai caldo? -, mi chiese, ridendo, e mi spinse sotto il getto gelido, senza darmi il tempo di togliermi gli occhiali, poi mi abbracciò, e il contatto della sua pelle contro la mia mi fece sussultare di dolore, ma non osai dirglielo, così le afferrai con violenza la testa dai capelli, come se volessi strapparglieli.

L’indomani, Adele non venne in spiaggia e passai il mio ultimo giorno di mare da sola, a rispondere alle domande garbate di Ida e a rassicurare mio padre, a dirgli che avevo passato una vacanza bellissima; – Sono felice di aver passato del tempo con te -, mentii: non lo avevo visto quasi per niente e ne avevo dedotto che aveva ragione zia Antonia, che aveva ragione pure mia madre: erano così gli uomini, così come mio padre, senza aggettivi, senza scampo. Erano così e basta; diversi da me, diversi da Adele, diversi da mia madre, da mia zia. Persino diversi da Ida; in fondo, lei era come noi, ma non lo avrei detto a nessuno.

Le scottature guarirono lentamente e la pelle nuova prese il posto di quella vecchia, tornando bianca e tenera, restituendomi le smagliature come le avevo prima. Ricominciò la scuola e Adele mi salutò appena; tuttavia, prima che potessi soffrirne, una notizia iniziò a dilatarsi nel fiato di tutti, prese spazio dapprima dietro mani spalancate a coprirla e poi s’impose senza pudore, senza attenzione: Adele era incinta. Si portò la pancia gonfia e tesa a scuola fino al mese di marzo, poi scomparve, diede alla luce una bambina dagli occhi azzurri e mia madre, mia zia e mia nonna le comprarono un regalo, glielo portammo insieme in ospedale. – Grazie, Mele -, mi disse, aggrappata al corpo della neonata, ma parlò soprattutto con mia madre, ci spiegò che si sarebbe diplomata da privatista e che sarebbe andata a vivere non so dove. Non la ascoltavo, pensavo al suo corpo sformato, alla pelle scura della schiena ed ero gelosa di quella bambina, gelosa di quello che tutti chiamavano fallimento – una gravidanza in così giovane età, una creatura tra le braccia di un’altra creatura –, e che per me era soltanto una parentesi tonda da racchiudere in una quadra, da rendere secondaria. Quando tornammo a casa, mi spogliai davanti allo specchio del bagno, alla ricerca di una traccia, anche minima, del dolore dell’estate precedente, ma non trovai nulla.

La settimana scorsa, ho incontrato Adele; è stata lei a riconoscermi, – Ti ho vista, Mele! -, mi ha urlato, da una parte all’altra della strada. Teneva per mano una bambina di otto o nove anni e tutte e due hanno attraversato in diagonale, mi sono venute incontro; l’ho ascoltata parlarmi, raccontarmi di suo marito, della figlia, del lavoro in un centro commerciale. Aveva gli stessi gomiti appuntiti, gli stessi capelli lunghi e la parlata trascinata, le lentiggini sulla faccia e quel suo modo di sporgersi a toccarmi i capelli, la medesima risata improvvisa e immotivata di quell’unica estate trascorsa insieme. C’era un vento gentile, più fresco del solito; ci siamo incamminate insieme, andavamo nella stessa direzione; – Ci spostiamo al sole? -, mi ha chiesto a un certo punto, e ho sentito un pizzicore lieve sotto il diaframma, come quello di una cicatrice che si risveglia col maltempo. Per un istante ho avuto paura, ho rivisto la mia pelle marchiata dalle ustioni, le notti senza dormire nella casa che mio padre divideva con un’altra famiglia e le bugie che avevo dovuto inventare per placare la sete malata e incattivita di mia madre. – Va bene -, ho risposto ad Adele, – Andiamo al sole. Tanto ormai è finito il tempo delle scottature -, e ho allungato una mano verso la sua bambina, per farle una carezza, ma lei si è ritratta, ha nascosto la fronte contro il braccio della madre. Era l’ultimo giorno di settembre e il viale non avrebbe tardato a riempirsi di foglie secche.