Insonnia

Una voce chiamava il mio nome. La sentivo lontana, come qualcuno che ti parla dall’altra parte della parete – quante volte, quante volte te lo dovrò ripetere: non si parla da una stanza all’altra – e non riuscivo ad afferrare le parole. Mi suonava irreale. – Luisa… -, implorava, – Luisa… -, e la distanza mi impediva di rispondere, il buio mi accecava. – Luisa… -, ripeteva, mentre cercavo di aggrapparmi a quel suono, per riuscire a riportarmi in superficie; – Di’ qualcosa, Luisa -, e sull’ultima vocale la persi, la voce morì, divenne un’eco irraggiungibile. Era tornato il silenzio.

Allora fui sorpresa alle spalle: lama di coltello o zanne di cane randagio mi attraversarono la nuca, mi tolsero il respiro, sottraendomi al dolore, e mi restituirono la voce. Stavolta, però, era vicina. – Luisa -, sentii di nuovo, – Luisa -. Acqua, acqua ovunque. Acqua sui capelli, lungo la nuca, giù per la schiena: aprii gli occhi.

Ciò che vidi subito dopo, fu una mano cingermi il polso, poi staccarsi da me, rapida, e colpire col dorso le labbra di una bambina. Betta: la bambina colpita sulla bocca era Betta, occhi azzurri, cerchiati di viola. – Non farlo più -, le intimò la voce che prima mi chiamava per nome. – Hai capito? Mai più! -. Mi toccai il colletto della camicia: era fradicio e gelido. – È l’acqua della madonna! -, protestò Betta, e la voce tornò a me. – Luisa -, tremò, – Luisa, sei viva -, senza perdere di vista l’altra. Suor Violante prese il polso di Betta, glielo portò dietro la schiena, quindi le slacciò la cintura dello scamiciato e glielo immobilizzò contro le reni. – La destra ha peccato -, spiegò, – Per oggi è in punizione -, e Betta provò a divincolarsi e ci riuscì. Suor Violante la fermò e la legò: allora lei pianse, – Luisa era morta -, singhiozzava, – L’acqua benedetta l’ha resuscitata -, e non si dava pace, si frugava nella tasca con la mano sinistra, la destra offesa, la destra castigata, impotente di fronte al miracolo. In verità, non mi aveva resuscitata, giacché non ero morta. Ero addormentata. E Betta mi aveva soltanto risvegliata.

Suor Violante era bionda; le guardavo l’attaccatura dei capelli sotto il velo, le sopracciglia chiare e gli occhi spogli, privi di ciglia, come piccoli stagni bruni, dal fondo troppo vicino al pelo dell’acqua. Lei parlava e io la studiavo, lei chiedeva e io pensavo a Betta, Betta che prima dormiva in collegio e adesso una famiglia se l’era portata a casa, Betta che adesso vestiva di velluto e, per ringraziare, ogni mattina entrava nella cappella della scuola, immergeva nell’acquasantiera un flaconcino di plastica a forma di Vergine di Lourdes, e ne beveva il contenuto prima di sera. Sempre, tranne quel giorno in cui risvegliare me fu più importante della gratitudine, ma la suora non lo aveva capito e l’aveva punita. Punita per un sacrificio, punita per avermi salvata. La favola di Isacco se l’era già scordata.

– Perché dormi a scuola, Luisa? -, mi chiedeva suor Violante, e io non rispondevo, le osservavo la pelle arrossata sul mento, il contorno del viso sfasato, dietro le lenti da miope. – Perché hai tanto sonno, figlia mia? -, insisté quel giorno, e allora le raccontai delle mie notti da sveglia, del letto che era una tomba di flanella, della TV accesa in salotto fino alle undici e mezza, delle voci dei miei genitori che nessun interruttore avrebbe potuto spegnere. – Non si dorme a scuola! -, sentenziò lei , e fece per andarsene. Poi tornò indietro, si chinò verso di me: – Ti insegno un trucco -, mormorò. – Per non dormire, prega -, e si guardò intorno, come se temesse di essere scoperta da qualcuno e punita come Betta. Obiettai che non avrebbe funzionato: non era la sera il momento della preghiera? Non si recitava l’Ave Maria proprio per addormentarsi? Suor Violante serrò le labbra, si tolse gli occhiali, venne ancora più vicina. – Sciocca, sciocca di una Luisa -, sibilò, – Sciocca bambina: è tutto il contrario. Si prega per star svegli -, disse. – Si prega affinché il sonno non arrivi prima di aver chiesto la grazia -.

Avevo nove anni e l’insonnia era la mia malattia. Mi aveva infettata presto e nessuno se n’era mai curato, sicché il morbo era cresciuto insieme a me, insieme al mio corpo, che non entrava più nel pigiama da bambina, insieme ai piedi, che la notte tenevo fuori dal letto, pronti a fuggire. Secondo mia madre, ero nata difettata: – Sei venuta al mondo già marcia! -, recriminava, – Mi hai rubato tutte le notti, da quando sei nata -, e io non sapevo, non ricordavo: vivere da ammalata era faticoso. Il veleno che mi infettava corrodeva la memoria. La sera andavo a letto e non dormivo, pregavo e non dormivo. Chiudevo gli occhi, – Fa’ che mi addormenti -, e la TV, nell’altra stanza o nell’appartamento di sotto, mi teneva sveglia. Seguivo, senza vederli, i programmi che piacevano a mia madre: ne contavo le pause pubblicitarie, calcolavo l’approssimarsi della fine e mi disperavo. Piangevo quando la sentivo spegnere la luce, specie quando mio padre la raggiungeva e borbottavano, poi parlavano più forte, litigavano, e allora piangeva anche mia madre. Non piangevo per loro, in verità: le loro inquietudini non mi riguardavano, la tristezza di mia madre non era affar mio. Piangevo per me, bambina insidiata dal male di una vecchia, incapace di dormire e condannata all’immobilità proprio di notte, nelle ore più lunghe della giornata.

Quando finalmente prendevo sonno – di giorno, a scuola, sotto lo sguardo di suor Violante – sognavo mia nonna. Non l’avevo mai conosciuta, ma lei mi parlava, da morta mi condannava a scontare con lei la pena dell’immobilità; io dovevo espiarla da viva, con gli occhi spalancati nel buio, incapaci di vedere. Forse avrei dovuto prendere esempio da Betta: rubare l’acqua santa e innaffiare la tomba di mia nonna per risvegliarla, come aveva fatto lei con me. Forse avrebbe funzionato. L’insonnia mi rendeva infelice, bellicosa; gli occhi arrossati erano spietati, il desiderio di dormire era l’unica forza capace di tenermi in vita. Betta mi sedeva vicino, mormorava nenie per rendersi testimone del mio sonno diurno, prodigio della malattia, deformità che mi teneva lontana dagli altri e mi rendeva cosa sua, piccione ferito che guardi morire in una scatola di scarpe.

Suor Violante chiamava mia madre e poi riceveva mio padre, che chiedeva scusa per l’intemperanza materna e prometteva risoluzioni che tardava a prendere. – È pigra -, disse un giorno a madre Angelica, la superiora, che lo aveva convocato per riparare agli appelli inascoltati di suor Violante, e madre Angelica se n’ebbe a male, batté il pugno nell’aria come se volesse colpirlo. – La bambina non è pigra -, replicò lei, secca. – Il sonno non è peccato -, e abbassò la voce, mio padre trattenne il fiato. – La bambina è posseduta! -, e quel giorno i miei genitori capirono che un’altra offerta alla madonna non mi avrebbe salvata: bisognava sottrarmi alle mani delle suore e affidarmi a quelle di dio. Andammo perciò dal medico quello stesso giorno: – Bisogna farla stancare -, prescrisse, e fu così che ricevetti il battesimo. Il mio corpo indemoniato venne immerso nell’acqua clorata della piscina municipale e i miei muscoli, già stanchi, vennero consegnati allo sforzo fisico, in un rituale di vespero profano, votato alla promiscuità. Non funzionò. Il miracolo non avvenne perché l’insonnia si rivelò idrorepellente: resisteva all’acqua e alla fatica, e nessun sacramento poteva restituirmi una pace che non conoscevo.

Fu così per anni: le notti bianche e il malumore, il sonno diurno e le classi ripetute, a scuola, la collera mai sopita e la solitudine. Non avevo amici, l’energia per amare mi mancava, il desiderio di dormire si prendeva tutto e l’incapacità di riuscirci mi rendeva rabbiosa, rancorosa, incubatrice d’invidia e di risentimento. Ho avuto quindici anni, poi sedici, diciassette: guardavo le mie compagne di scuola, tutte più giovani, nessuna aveva più acqua benedetta per me, nessuna conosceva il sacrificio. Nessuna era Betta. Mia madre mi condannava, – Pigra, sei pigra! -; mio padre mi accompagnava in piscina, fedele alla penitenza assegnata dal medico, impotente di fronte al mio malessere, cieco al cospetto dell’evidenza del fallimento, eppure incapace di rinunciare alla fede. Solo Bruna, che allora stava con mio padre da pochi mesi, solo lei, una sera di febbraio capì. Toccava a lei portarmi in piscina: eravamo quasi arrivate a destinazione, lei, al volante, che insultava pedoni e ombrelli, io, di fianco, la parte interna delle guance martoriata dai molari, la saliva ferrosa. – Ti piace proprio? -, mi chiese, e io non risposi; – Nuotare: ti piace? -, e si voltò verso di me e allora piansi. Tornammo a casa insieme, lei si addormentò davanti al festival di Sanremo. In piscina non ci andai più.

Dall’insonnia guarii all’improvviso. Me la lasciai alle spalle alla fine della scuola, a ventun anni, il diploma in mano e l’inesperienza di un’adolescente. La malattia si esaurì da sé, mi strappò via la pelle e il siero di vipera insieme a un’ustione, la prima della mia vita, e me la restituì nuova, rigenerata. M’innamorai presto, Elia m’insegnò i miei anni, i gesti dell’amore e le promesse di matrimonio; ci sposammo l’anno dopo, in fretta, al municipio. – Pigra, sei pigra! -, commentò mia madre, di nuovo, ma non era flemma, la mia, era paura di non sapere amare, per non averlo mai fatto, era angoscia di non saper vivere perché l’insonnia me lo aveva impedito. Era fame nervosa, non era appetito: il digiuno mi aveva resa insensibile ai sapori.

Smisi di dormire dopo le nozze, l’anello al dito e la camera da letto ancora non addomesticata, il letto mezzo vuoto, perché mio marito – marito, la mia voce suonava non mia, quando pronunciavo quella parola – lavorava di notte. Non capii subito che la malattia si era riaffacciata; cercai di ignorarla, diedi la colpa al cambio di stagione, alla novità, ma di giorno era tornata la spossatezza disperata e collerica della mia adolescenza, mentre di notte mi ostinavo a restare a letto, stremata, avvilita. Il corpo batteva le ali, provava a staccarsi dal suolo e io lo zavorravo a terra con le mie stesse mani, lo guardavo dibattersi, non reagivo. Lasciai passare una settimana, poi due. Me la presi con Elia, con mia madre, urlai al telefono con Bruna, le rinfacciai di avermi tolto la piscina, unica forma di stanchezza che davvero potessi spiegare. Poi, andai a trovare suor Violante.

Aveva quasi settant’anni, il biondo dei capelli nascosto dal velo, il viso severo e benevolo che le avevo conosciuto. – Luisa -, mi accolse, e senza aggiungere altro mi portò con sé nella cappella, iniziò a pregare mormorando. – Non dormo -, le confessai, – Non dormo più -, e suor Violante si voltò a guardarmi, nel buio granuloso che ci avvolgeva: – Prega -, rispose, e mi venne da piangere, perché erano passati vent’anni e lei era invecchiata sotto la tonaca come i bambini crescono nei cappotti, ma le sue soluzioni erano rimaste le stesse, superstiziose e inefficaci, adatte a una realtà che iniziava e finiva in quella cappella, fra l’acquasantiera vuota e il cristo di legno.

Una donna percorse la navata, si sedette un banco davanti a noi – le orecchie disadorne, il labbro inferiore spaccato da un taglio verticale, un livido sullo zigomo. Si frugò in petto, ne estrasse un rotolo di banconote e le stese accanto a sé, poi ne prese una da cinque, la guardò in controluce – la poca luce che filtrava dalle finestrelle alte – e la gettò ai piedi del crocifisso. Quindi se ne andò, e mentre usciva, mi parve d’intravvedere la sua mano che sfiorava la spalla di suor Violante, la mano di Suor Violante che indugiava su quella di lei, una parola che rimbalzava dalla bocca dell’una a quella dell’altra.

– Chi è? -, le domandai, e lei, pronta: – Cosa volevi? Che sei venuta a fare? -. Tornai ad accennare all’insonnia, ma senza convinzione, e suor Violante m’interruppe. – Smettila -, e si portò in grembo la mano che aveva toccato quella della donna, – Smettila subito: il tuo problema non è l’insonnia. Non lo è mai stato -, sibilò, e la sua voce suonò grave nella cappella vuota, cupa come quella di un uomo. – Il tuo problema è che vuoi tenere gli occhi aperti e vederci chiaro quando è buio. Non puoi, non si può. Ciò che avviene nel buio, nel buio deve restare -, fece una pausa, abbassò le palpebre. – Perché a volerci veder chiaro di notte, si finisce col chiudere gli occhi quando c’è luce. Perché a volere troppa luce ci si perde la vita -.