Ho sognato di cantare

Ho sognato di cantare. Mi sono svegliata una mattina con la musica in gola, il ricordo esatto della voce che si appoggiava sulle note, che saliva e scendeva, assecondando il fraseggio, le pareti della stanza che mi restituivano il riverbero – ero io, ero sola, quella musica veniva dal mio corpo.

Ho sognato di cantare: era un pezzo di Lucio Dalla, cui non pensavo da tempo; mi sono alzata, sono andata a prendere il telefono e sono tornata a letto. Ho cercato la canzone, ho premuto play, ho alzato il volume e ho osservato lo schermo finché non si è esaurita. Quattro minuti e ventotto. – Vuoi ascoltarla di nuovo? -, ho letto alla fine. No, non volevo. Mi sono rimessa distesa, gli occhi al soffitto; non erano neanche le sei.

Quella sera, tornando dal lavoro, passai davanti a una chiesa. – Ingresso libero, ore venti e trenta, tutti i giovedì -: era la locandina di un concerto, suonavano gli allievi della classe di pianoforte del conservatorio. Immaginai i tasti percossi da mani inesperte e sudate, le facce sussiegose, il tremito dei polsi e la luce sul leggio, e provai un moto di collera e di tenerezza. Al mio arrivo, tutti i posti erano occupati, sicché dovetti percorrere la navata, fin quasi all’altare – sposa orfana, sposa che non ha il braccio del padre a sorreggerla -, e mi sedetti in prima fila. Un uomo, alla mia sinistra, mi salutò col sorriso di chi ti ha riconosciuta, di chi ti ha già incontrata prima e condivide con te la memoria di un ricordo privato. Ci misi troppo tempo a chiedermi chi fosse, e lui intanto aveva spostato lo sguardo altrove, mi aveva rimossa. Tornò verso di me all’intervallo. – Le sta piacendo? -, mi domandò, e in quel momento una donna s’avvicinò e s’intromise – Chi ti ha chiamata, estranea, vattene! –, gli tese la mano e se lo portò via. Si erano spente di nuovo quasi tutte le luci, quando lo vidi venire verso di me; mi disse qualcosa che non capii, poi avvicinò la bocca al mio orecchio per ripeterla, ma di quel momento ricordo soltanto il suo fiato tiepido, l’odore di chewing-gum, il disagio e insieme il piacere per quel contatto inatteso eppure desiderato. Una ragazza si sedette al piano; cercò con lo sguardo l’uomo alla mia sinistra – vicino a me, sta vicino a me –, il suo maestro. Poi, iniziò a suonare. Me ne andai prima della fine dello spettacolo.

Tornai la settimana seguente Mi sedetti nel mezzo della sala e l’uomo subito mi trovò. Il concerto non era ancora iniziato. – È una musicista? -, esordì, e io mi confusi, scossi la testa, gli occhi fissi sulla bocca di lui. – Le piace la musica? -, e non risposi, non sapevo cosa dire. Non potevo: erano quindici anni che avevo perso l’udito. Quello stesso giorno, avevo perso anche mia madre.

L’ultimo ricordo che ho di quell’ultimo istante e di lei è una canzone, la stessa che avevo sognato di cantare poche notti prima. Era la prima volta che mi accadeva di rievocarla, non mi ci ero mai soffermata, né mi era chiaro se mia madre avesse spento la radio un attimo prima di accelerare o se Lucio Dalla stesse intonando il ritornello mentre andavamo a schiantarci contro un muro, mentre andavamo a dimezzarci, a diventare da due, una sola – da madre e figlia, figlia soltanto: rimuovi la causa e lascia l’effetto.

Non avevo sofferto per la morte di mia madre: una perdita più importante – le voci degli altri, la musica, la possibilità di orientarmi a occhi chiusi – aveva rotto i margini del vuoto materno e ne aveva scavato una voragine. Poi l’aveva abitata, occupandola per intero, rendendomi perdita pura: non più figlia ma superstite mutilata, non più relazione, ma isolamento. La sordità mi aveva spinta fuori, sul ciglio delle possibilità: esistevo ma non c’ero. Mio padre mi aveva accompagnata allora in Svizzera, mi aveva lasciata davanti al cancello di un istituto – il collegio, lo chiamava –, dove si sarebbero presi cura di me. Bisognava rieducarmi, come se la morte della madre riportasse i figli al livello di partenza, allo zero della vita, come se il lutto – quel lutto – rendesse necessaria una riprogrammazione totale. Dovevo imparare a piangere, a chiedere, a dire io: da sola dovevo ridarmi alla luce, uscire da un buio diverso dal ventre materno. Un buio esterno, un buio muto, fatto tutto di occhi e di nient’altro. Ebbero inizio così gli anni più felici della mia vita. Conobbi subito Sabine. Era più giovane di me – piccolo corpo di sangue tedesco, ma solo di madre – e la prima volta che ci incontrammo la vidi nuda, accucciata di fronte all’armadio aperto. Stava cercando una camicia da notte pulita e quando mi sentì arrivare non si coprì, il pudore non le velò gli occhi, ma la fece ridere. Le guardai i denti divisi nel mezzo, i capelli rossi che ricrescevano disordinati su una testa punita, da maschio, e mi affezionai subito al suo odore di bambina, alla bocca che sillabava parole lente per me soltanto, alla risata che non aveva suono, ma che le nasceva negli occhi e nei miei moriva. Dividevamo la stanza, qualche volta il letto – aveva freddo, aveva paura, aveva bagnato il suo – e sentirla premermi l’orecchio contro la schiena fu la prima felicità che imparai a riconoscere, abbecedario dei sentimenti che iniziavo ad addomesticare. Cantava, Sabine, cantava per me nenie in tedesco che non potevo capire, danze di labbra e di denti che fissavo, ipnotizzata, prima di dormire, le luci tutte accese per non perdermi una nota, una sillaba soltanto, un guizzo della lingua tra gli incisivi per produrre un suono duro che mi sforzavo invano d’immaginare.

Ero in collegio da quattro anni quando Sabine se ne andò: la vennero a prendere per le vacanze di Pasqua e non me la restituirono più. Mi lasciarono orfana per la seconda volta: nessuna rieducazione fu prevista allora per rimettermi al mondo. Il silenzio era tornato a minacciarmi, condanna terrena di un’eternità indesiderata.

Dopo le prime due volte, tornai al concerto tutte le settimane. Il maestro si installò alla mia sinistra e, di giovedì in giovedì, diventammo un appuntamento fisso l’uno per l’altra. Veniva a prendermi, mi parlava mostrandomi il viso, si copriva gli occhi quando rideva. Casa sua mi divenne familiare. Lasciava che gli sedessi accanto mentre suonava il piano e io restavo immobile, gli occhi sulle sue mani, la spalla contro la sua spalla. Quel contatto tra il mio corpo e il suo fu per me la felicità più vicina a quella che avevo provato al collegio con Sabine – la sua testa tra le mie scapole, la bocca che mi cantava canzoni, il calore estraneo che diventava il mio.

Era passato un anno dal nostro primo incontro, un anno di rieducazione alla musica e all’amore, un anno di tentativi di emancipazione dall’orfanità, quando il maestro mi disse che voleva un figlio. Scandì le sillabe una a una e io lo avevo capito prima ancora che arrivasse alla fine della frase, prima che potesse sorridermi e accogliere il mio sì, l’assenso che era sicuro di ricevere e che invece gli negai. Non potevo avere figli, non volevo, ma questo non glielo spiegai. Avevo letto, anni prima, che una donna si accorge della nascita del suo bambino sentendolo piangere: le sue urla, il suo lamento, il dolore di esistere sono, per la mamma, un interruttore d’amore, la prova del parto riuscito, il via alla relazione col figlio. Quel pianto, io non avrei potuto mai ascoltarlo: la maternità mi era preclusa, perdere mia madre mi aveva strappato di dosso il potere di dare la vita. Pensavo con orrore alla possibilità che mi nascesse un figlio morto, alla tragedia di vederlo in faccia per la prima volta già livido, già altrove e questo, questo bastava a rafforzare la mia decisione. A nessuno avrei permesso di consegnarmi a quel dolore. A nessuno avrei permesso di germogliarmi in grembo.

Ci separammo. Smisi di andare ai concerti, smisi di vederlo suonare. La musica non mi mancava, perché era passato troppo tempo da quando avevo iniziato a dimenticarla e l’avevo cancellata, come il volto di un nonno che perdi da bambino. Passò l’estate e non lo incontrai più; poco a poco, la sua immagine mi sparì dalla memoria, amore che avevo imparato intero e che non avevo voluto moltiplicare, paura di un figlio incapace di colmare la mancanza che mi definiva per chi ero più di un cognome, più di una storia, più del sangue.

Avevo quasi trent’anni e avevo perso tutto; nella solitudine, decisi che era giunto il momento di iniziare a prendere. Prendere e basta: mi spettava di diritto. Prendere tutto ciò che i miei occhi – senso assoluto, senso di ripiego potenziato dalla necessità – desideravano. Mi accorsi del bambino sin da quando arrivai: giaceva in un passeggino, sotto il cielo d’autunno. Sua madre gli stava accanto, lo dondolava con una mano e con l’altra gesticolava, aggiungeva la punteggiatura ai suoi discorsi con un’altra donna. Ero in fila dietro di lei, eravamo al mercato e presto sarebbe stato il suo turno: dovevo sbrigarmi, fare in fretta. Fui rapidissima: mi chinai di scatto, sollevai il bambino, me lo portai al petto. Lui si agitò, si dimenò, spalancò la bocca sulla mia camicia azzurra e pulita, sentii la sua saliva sul collo, il tepore del suo corpo. Sapeva di pane, sapeva di ruggine e di latte. Lo strinsi forte: stava piangendo. Non potevo sentirlo ma vedevo che stava piangendo. Subito sua madre mi fu addosso, l’altra donna pure, e il commerciante, e gli altri clienti. Il bambino passò dalle mie braccia alle loro, mi urlarono parole che non udii, che non lessi sulle loro bocche, ipnotizzata da quel pianto che mi era esploso in braccio e che già avevo perduto.

Era giovedì: quella sera, dopo mesi di infedeltà, tornai in chiesa. Il maestro non c’era, se n’era andato, si era trasferito a Roma: me lo disse una sua allieva prima di salire sul palco e allora non mi fermai, me ne andai senza ringraziarla. L’indomani stesso, presi il treno: dovevo ritrovarlo, dovevo dirglielo. Seduto accanto a me, dall’altra parte del corridoio, c’era un ragazzo. Non avrà avuto vent’anni, era giovane come i pianisti dai polsi tremanti, e teneva gli occhi chiusi e un paio di grosse cuffie in testa: ascoltava la musica dal telefono – ho sognato di cantare una volta sola, e quando mi sono svegliata ho provato a ricordarmi l’effetto che fa – e non guardava nessuno. Poco prima di arrivare, il ragazzo si alzò, lasciò il telefono sul sedile, lo vidi sparire oltre la porta di vetro. Allora mi alzai anch’io, mi installai al suo posto, infilai le cuffie e sfiorai il tasto play. Alzai il volume, ancora di più, fino al massimo: non sentii nulla. Solo il contatto con la plastica morbida e fresca, solo la carezza di un oggetto inutile contro la cartilagine delle orecchie. Non sentivo nulla. Ma in quel nulla che mi sfuggiva c’era la musica, c’era il rumore, il mistero che non comprendi e che pure accetti. In quel nulla c’era la vita degli altri che si incontrava con la mia.