Paura di lei

Sul balcone trovai un nido di piccioni. Vi si erano installati da qualche settimana e me ne ero accorta soltanto quando ormai avevano preso residenza, avevano smesso di essere ospiti di passaggio e si erano stabiliti definitivamente, imprimendo una svolta sedentaria alla loro esistenza incerta. Era l’inizio di gennaio, le luci di Natale iniziavano a rattristarmi, a stingere in un tempo che non era più il loro. L’attesa della festa era finita; la mia, invece, non ancora. Natalia avrebbe dovuto già essere arrivata, in fondo era per quello che avevamo deciso di chiamarla così, quando avevamo capito che ero incinta e che avrei messo al mondo un figlio, io che a trentasei anni credevo di avervi rinunciato, senza nemmeno aver mai sperato. Il giorno in cui il medico mi annunciò che avremmo dovuto iniziare a pensare a un cesareo, perché la bambina tardava e non potevamo più aspettare, mi accorsi che nel nido c’erano due uova – no, forse erano tre –, e che la madre non le abbandonava mai. La madre, lo davo per scontato: e se fosse stato il padre? Provai ad avvicinarmi, feci per spostare la fioriera – terremoto in un mondo di piccioni – e la madre, o il padre, volò via, mi lasciò le uova, ventre gravido extracorporeo, incubatrice abbandonata alla mia volontà. Immaginai di prenderle in mano, di frantumarle tra le dita, tuorli viscidi o neonati di piccione. – Ecco -, avrei urlato alla mamma, che tornava in picchiata a constatare il delitto, – Ecco il tuo cesareo, uno a te e uno a me -. Invece, non feci niente, mi allontanai dal nido, ritirai le mani, – Non ti ho nemmeno toccata -, mi scagionai, e di nuovo la immaginai femmina, la immaginai mia simile, sorella sorvegliante di una gravidanza fuori tempo. Natalia giunse un giovedì mattina; me la ficcarono tra le braccia senza chiedermi, senza dirmelo. La guardai in viso e ne ebbi paura, paura di lei e di quella faccia da piccione appena nato, appena uscito da un uovo che avevo rotto con le mie mani. – È bellissima -, mi rassicuravano le ostetriche, – Assomiglia a te, no, a lui -, esitavano gli amici, i parenti, mio marito. – Guardala -, mi esortavano, ammirati, e volevo solo discolparmi, non l’ho fatta io, non sono stata io, lasciatemi in pace. E loro, ancora, – Guardala: ha proprio la tua faccia -. Allora mi sforzavo, le piantavo gli occhi in viso – fronte arrossata, occhi minuscoli, bocca enorme e nera – e provavo paura, m’invadeva il terrore, mi concentravo sulle decorazioni di Natale che addobbavano ancora le finestre della clinica, nonostante fosse passata la metà di gennaio. Tornammo a casa e i piccioni erano spariti dal balcone: non c’era traccia del nido, dei cocci di uova, delle piume lasciate dalla madre – o dal padre –, per difendere i figli. Chiesi a mio marito e lui scrollò le spalle, – Quali piccioni? -, e mi prese la bambina dalle braccia, se la strinse al petto. – È bellissima -, mormorò, e io non capivo quella bellezza, non capivo la felicità, guardavo Natalia in viso e avevo paura, allora cercavo i piccioni – la mamma-piccione, che aveva aspettato mia figlia con me – e non trovavo niente. Ero sola, incapace di spiegare il dolore che provavo, condannata al silenzio e alla faccia della mia creatura che non sapevo amare.

Con mia madre non parlavo da dodici anni: non era un silenzio ostile a separarci, piuttosto una mancanza di parole comuni, una svogliatezza affettiva che ci teneva lontane per non doverci scusare della reciproca indifferenza. Ci eravamo riviste alla morte di mio padre, pochi mesi prima che Natalia nascesse, e le avevo raccontato della gravidanza per esclusione, per evidenza, per l’imbarazzo di non avere nulla da dirle. Allora aveva iniziato a telefonarmi, – Come sta la bambina? -, e della bambina allora sapevo solo il numero di settimane, la presenza del battito cardiaco, la data dell’appuntamento dal ginecologo. Da quando ero tornata a casa, dopo il parto, aveva preso l’abitudine di venirmi a trovare: arrivava la mattina, intorno alle dieci, si occupava di Natalia. Mi sollevava dall’obbligo di guardarla, e i miei occhi diventavano i suoi, le cedevo la maternità per disperazione, e così i gesti, così la cura. Amava mia figlia come io non potevo fare, la osservava come non avrei potuto, e in quella linea di proiezione materna – da lei a me, da me a mia figlia – mi sentivo al riparo. Non rispetto a me stessa, beninteso, giacché dell’amore di mia madre non sapevo che farmene, e mi metteva in imbarazzo come un dono immeritato, ma rispetto alla bambina. Il ritorno di mia madre mi esonerava dalla maternità; tuttavia, il pane che lei spezzava non lo mangiavo mai: lo davo a Natalia, e non per amore. Da quella madre non volevo nulla ed era per quello che le avevo affidato mia figlia, mia figlia, che non potevo guardare in viso, nelle mani di una madre il cui viso mi era rimasto estraneo.

Una mattina me ne andai. Aspettai che mio marito uscisse, preparai una borsa con pochi vestiti – avrei potuto stare fuori due o tre giorni al massimo –, scrissi una lettera di scuse e mi chiusi la porta alle spalle. Mia figlia era rimasta dentro, dormiva nella sua stanza. Mi ero avvicinata a lei, nel buio, l’indulgenza dell’ombra ad avvolgerle il viso e a nasconderla ai miei occhi, mi ero chinata sul suo corpo – respira, accertati che respiri –, e l’avevo salutata senza dir niente, come una preghiera affidata a una madonna da chi non crede più. Di lì a poco, sarebbe arrivata mia madre: ci avrebbe pensato lei alla bambina. Io non potevo più.

Passai le prime notti in auto. Avrei potuto cercarmi un posto dove stare – due, tre giorni al massimo: così mi ripetevo –, ma il sedile posteriore della macchina mi sembrava la soluzione migliore, una punizione più consona alle conseguenze della mia fuga. La sera, prima di cercare uno spazio libero in un parcheggio, per mettermi a dormire, passavo sotto casa, cercavo con lo sguardo la finestra della cucina che dava sulla strada: la luce era accesa. Loro erano dentro, e saperli al sicuro – mia figlia tra le braccia di mio marito, mia figlia nella culla, occhi spalancati contro il soffitto –, bastava a rassicurarmi. Fu il freddo a spingermi a installarmi in una pensione, in una cittadina a mezzora di viaggio dalla mia; al mattino, andavo alle piscine comunali, mi facevo la doccia in mezzo alle altre donne, in mezzo a madri che non avevano paura della faccia dei loro figli. Non nuotavo, mi lavavo e basta, mi sedevo sugli spalti e guardavo, estranea, in disparte. Il corpo di mia figlia – stringerla al petto, stupirmi di quanto fosse leggera, uovo di piccione appena schiuso – mi mancava. La lontananza dal suo volto aveva un effetto benefico su di me: la distanza era una liberazione. Non la vedevo da quasi tre settimane, ormai, e la notte, senza di lei, dormivo meglio. La paura mi aveva abbandonata.

Un pomeriggio, andai da Caterina. Erano passati molti anni dall’ultima volta e nel momento in cui venne ad aprire la porta, la riconobbi sotto lo strato di vecchiaia che l’aveva appannata; mi pentii di averla cercata e mi venne da piangere. Mi accolse nel salotto – gli stessi cigni di cristallo allineati sul davanzale, la luce scomposta che fendeva la parete, il tappeto coi fiori azzurri che ora iniziavano ad appassire – e mi sedetti di fronte a lei, come quando avevo sedici anni e vivevamo insieme, come quando avevo diciassette anni e mi convinceva a tornare a scuola, come quando avevo diciott’anni e mi annunciò che lei e mio padre avevano smesso d’amarsi e che lei e io saremmo diventate altro. Non era più la finta madre che tutti credevano vera; – Vi assomigliate così tanto! -, dicevano, e noi stavamo al gioco, – Gli stessi occhi -, rispondeva, – Ma la bocca l’ha presa dal padre -. Ed era vero, la bocca era di mio padre, ma gli occhi avrebbero potuto essere suoi, l’istinto di ridere nei momenti solenni pure: ci assomigliavamo, madre e figlia a scadenza, in una vita di corrente staccata, d’acqua fredda in pieno inverno, di padre soltanto, giacché mia madre, quella vera – quella che poi sarebbe tornata per mia figlia e che sarei stata io ad abbandonare –, era altrove, era sparita, era uscita dalla mia consuetudine per sua stessa volontà. – Smettetela di pensare allo stesso modo -, scherzava mio padre, – Smettetela, mi fate quasi paura -, e Caterina, allora, aveva paura davvero, paura di me, delle conseguenze che la mia presenza, sedici anni e nessuna storia, poteva avere nella sua vita. Me lo confidò, mentre mi faceva le carte, come nei pomeriggi di tanti anni prima, e l’asso di quadri le tremò tra le dita, mentre me lo spiegava, ma non era emozione, era fragilità, era malattia, era vecchiaia, ed ebbi paura anch’io, mi coprii la bocca con la mano aperta per nasconderlo. – Paura di cosa? -, le domandai, e dagli occhi allontanai la faccia di mia figlia, la bocca nera – ti assomiglia, no assomiglia a lui, no è tutta sua madre. – Non sono sicura -, mi rispose; – Ti guardavo e mi rivedevo, mi parlavi e avrebbe potuto essere la mia voce -, fece una pausa, mi puntò lo sguardo addosso. – Avevo paura di non essere più sola, di non essere più libera. Di essere responsabile dei tuoi dolori, di leggerli sul tuo viso e di soffrirne di riflesso -, e smise di parlare, tornò alle carte. – Guarda questa donna di cuori -, e la sfilò dal mazzo, me la mise in mano: – Questa non sei tu. Può essere tua figlia -. Della gravidanza non le avevo detto niente ancora, e decisi di lasciarla all’oscuro. Gliene avrei parlato un’altra volta; – Tornerai a trovarmi, vero? -, domandò, congedandomi, e le promisi che sarebbe stato così, che non volevo lasciarla andare un’altra volta, e lo pensavo davvero, lo volevo davvero. Gli anni che ci avevano divise erano stati quelli della mia vera orfanità.

Bussai alla porta e non ottenni risposta. – Natalia, apri, ti prego -. Di nuovo mia figlia non fece niente, mi isolò nel silenzio in cui mi aveva condannata, nelle ultime settimane. – Ti prego -, implorai ancora, – Il funerale è tra poco. Dai, esci -. Silenzio. – Ti sto pregando. Ascolta tua madre, ascoltala una volta -.

Aveva tredici anni, adesso, tredici anni e un odio nuovo, covato per me soltanto con la stessa dedizione della mamma-piccione nel nido sul balcone, con la pazienza di cui non ero mai stata capace. – Non ci vengo! -, urlò lei, dal bagno, e mi vidi da sola dietro il carro funebre di mia madre, mio marito – il mio ex marito –, che sarebbe venuto per cortesia, con la nuova moglie, e sarebbe rimasto in disparte, – Dov’è Natalia? -, e avrei dovuto giustificarmi, spiegargli che non ero riuscita a portarla fuori dal bagno, esattamente come non ero riuscita a portarla da sola fuori dal mio ventre, ed era occorsa la mano del chirurgo. Stavo per arrendermi, quando la porta si aprì e apparve mia figlia, il viso sfigurato dal pianto. – Non ci vengo -, mi ripeté, e io le carezzai una guancia, la repulsione trattenuta in un tremito lieve del polso, lo stesso di Caterina quando mi faceva le carte, l’amore di madre educato dalla necessità. – Sei bella -, mentii, e lei pianse di nuovo, – Ti detesto! -, sibilò, – Detesto questa faccia e detesto te, perché siamo uguali -, e sapevo che era sincera, ma in quelle parole, in quell’avversione, in quella dolorosa verità c’ero anch’io. Mi riconoscevo. Quell’odio comune era la più autentica forma d’amore che ci fosse oramai concessa.