Mia sorella

Salirono un uomo e una donna, un attimo prima che si chiudessero le porte. Lui entrò per primo e urlò un’imprecazione contro l’autista, lei lo seguì, cappotto rosso che le arrivava alle caviglie nude, scarponi militari ai piedi. Stavano litigando in una lingua che non conoscevo, si rovesciavano addosso suoni strozzati e pieni di consonanti, senza spazio per il respiro, privi dell’ossigeno delle vocali. Si fermarono davanti a me: adesso, la bambina sedeva dietro la schiena rossa della donna, mentre l’uomo mi mostrava il viso. Era giovane, non avrà avuto vent’anni, mentre lei ne dimostrava di più: quanti? Quaranta, quarantacinque, forse cinquanta. La loro presenza aveva assorbito quella di tutti gli altri; la bambina, soprattutto, la bambina con la racchetta in mano e poi la ragazza che prima cantava e adesso aveva smesso, l’amplificatore legato a un carrellino blu dell’Ikea, il cellulare in una mano e il microfono nell’altra. Avevo appena estratto il portamonete dalla borsa, quando la coppia era entrata; la musica s’era interrotta – via la voce, restava solo la base strumentale, che così, disadorna, deviava in una stonatura – e s’era fatto silenzio. Nessuno parlava più; ascoltavamo quei due che gridavano, lui alzava la voce e lei lo sovrastava, lui la frustava con le consonanti e lei tirò fuori un coltello. Sentii lo scatto, poi il silenzio più affilato di prima. Non vedevo la bambina, la borsa con la racchetta, il monopattino che teneva incastrato tra le gambe; non la vedevo più. Lei, la donna, adesso era di fronte a me: non avevo più la sua schiena rossa davanti agli occhi, ma il suo volto rabbioso, il vestito di jeans e le gambe nude, il coltello puntato verso di lui, che indietreggiava verso di me e veniva sempre più vicino. Non mi mossi – la bambina, dov’è la bambina –, non mi alzai, e lui mi urtò la mano col retro del ginocchio, sicché il portamonete cadde a terra. Allora l’autista fermò il mezzo, aprì le porte, fece per venire verso di noi ma dovette notare il coltello, perché si arrestò a metà del corridoio; qualcuno chiamò la polizia. Quando riuscii a scendere, la bambina non c’era più: doveva avere approfittato della via d’uscita e se n’era andata, era scomparsa nel buio di gennaio. Eravamo parecchio lontani dalla fermata dove scendeva di solito, e mi domandai dove fosse andata, se avesse un cellulare, in tasca, se avesse continuato col monopattino fino alla scuola di tennis. Se un’auto l’avesse investita.

Nei giorni successivi, non la vidi più. Continuai a prendere lo stesso tram, seguitai a sedermi allo stesso posto, di fronte al suo, che restava vuoto oppure veniva occupato da gente che non le assomigliava – una donna anziana aggrappata a un ombrello, due adolescenti incastrate sullo stesso sedile, gli zaini tra le braccia, la testa dell’una contro il collo dell’altra, un uomo che parlava al cellulare. Lei non tornò; l’aspettai e non tornò. Vidi salire di nuovo la ragazza col microfono, l’ascoltai cantare “Remedios” con una voce lieve e incoerente, poi intonare “My way”, che non c’entrava nulla con “Remedios”, né con me, né con tutta la situazione, e piansi nervosamente, di delusione e d’incomprensione. Cercai gli spiccioli per lei sul fondo della borsa – non avevo ancora comprato un portamonete nuovo –, ma mi punsi con una spilla da balia aperta. Lasciai passare due settimane, – Domani -, mi dicevo, – Domani verrà, aspettiamo un giorno ancora -, ma la bambina non riappariva e il suo posto adesso apparteneva ad altri. Anche la sua memoria si stava affievolendo, dentro di me: la stavo già dimenticando, e lottare per non cancellarla dalla consuetudine era doloroso, risvegliava in me il male d’una vecchia ferita, che da anni mi ostinavo a riaprire non appena la vedevo rimarginarsi. Un pomeriggio, scesi alla sua fermata. Doveva esserci una scuola di tennis nei dintorni, e la cercai, chiesi ai passanti: non fu difficile trovarla. Mi fermai davanti alla rete, il campo invaso da urla acidule, da insulti, da abbracci e da palline gialle, lanciate da una parte all’altra, ora ridendo, ora con furia. Quella scena – trecce bionde che frustavano l’aria, gambe livide, mani scorticate dal gelo e parole rapprese in nuvole di vapore – mi riportò a molto tempo prima, a un’epoca in cui cercare un volto familiare in una folla straniera era stata una consuetudine, era stata una forma di giustizia domestica, il tentativo disperato di ristabilire un ordine che il caso – dio, il male, le forze dell’universo che ci avevano piantato addosso il loro occhio da ciclope – aveva sconvolto.

Mia sorella era scomparsa un lunedì di gennaio di venticinque anni prima. Mia madre era andata a prenderla dalla lezione di violino, perché aveva iniziato a piovere, ma la maestra si era meravigliata, aveva spiegato che la bambina era andata via da sola, e che della pioggia non s’era accorto nessuno, e che adesso doveva proprio andare, perché aveva lasciato le altre allieve, di là. Più tardi – intervistata dalle televisioni, dai giornali, aggredita dai morsi del pettegolezzo, che ti porgono uno straccio fingendo sia una coperta, e tu li lasci fare perché in realtà hai bisogno di spogliarti, di darti in pasto, di sparire per non vedere più niente –, più tardi mia madre l’avrebbe incolpata, quella maestra. Se la sarebbe presa con le consonanti smussate dagli anni vissuti in Venezuela, si sarebbe accanita sulla sua indifferenza. – Mia figlia era sparita, e lei si preoccupava delle altre figlie, di quelle che c’erano -, l’aveva accusata, occhi sporchi di matita nera nella telecamera, labbra tremanti sul metallo del microfono, sembrava una cantante in gara al Festival di Sanremo negli anni Cinquanta. – È così che è abituata a fare? È così che ha trattato mia figlia. Come una delle bambine che ha partorito nel suo Paese e poi ha dato via per soldi? -, e allora il cameraman stringeva l’inquadratura sul suo volto, le vedevo la peluria scura sulle labbra, scintillante sotto le luci dello studio televisivo, e mi vergognavo. – Ridammi Elenina. Ridammela -, ed era sola, prima persona singolare. – Te la pago in contanti -.

Nei primi mesi, la maestra di violino ci telefonò tutte le settimane; chiamava di lunedì, il giorno in cui Elena aveva lezione – lo stesso in cui era scomparsa –, ma non chiedeva mai di lei. Sapeva che non c’era, che non sarebbe tornata; ero io a risponderle, era a me che destinava le sue benedizioni, prima di riattaccare, – Che dio ti benedica! -, consonanti morbide e vocali che stingevano l’una sull’altra. Era l’ultima persona ad aver visto mia sorella, ma non era solo per quello che mi piaceva ascoltarla: era perché mia madre l’aveva condannata, ma non era stata lei, era perché quella donna, attraverso il ricordo di Elena, non dimenticava noi. L’esatto contrario di ciò che aveva fatto mia madre.

Da quando Elena era scomparsa, ci aveva lasciati anche lei, sicché io m’ero scoperta orfana di madre e mio padre vedovo, mia sorella aveva tirato un filo e si era disfatta la trama intera; era rimasta una famiglia nuda, corpo e basta, un padre e una figlia e un cane. In quel tempo di assenze che si moltiplicavano – mia sorella era svanita e mia madre pure: la vedevamo in TV, la sua faccia gonfia di pianto accanto alla foto di Elena col vestito della cresima -, in quel tempo fu il cane a coprire i posti vacanti. Iniziò a coricarsi sul letto vuoto accanto al mio già dalla prima sera, già da quel lunedì in cui casa nostra era diventata una piazza, il luogo in cui i vicini, i passanti, gli sfaccendati entravano senza bussare e ci parlavano di Elena. Avevamo lasciato la porta aperta e loro non si facevano pregare, si accomodavano in poltrona, sulle sedie della cucina, sullo sgabello del pianoforte; l’avevano vista, indossava una giacca rosa – sì, rosa! No, blu, no: era senza giacca, correva sotto la pioggia, il violino in spalla, senza violino, è entrata nella chiesa del Carmine, è salita su un’auto, l’hanno vista alla stazione degli autobus, l’hanno vista tenere per mano una mendicante, gli occhi azzurri erano i suoi. Mia madre ci credeva, – Ripeti: dove l’hai vista? -, ma mia sorella aveva gli occhi marroni, come me, come mio padre, come mia madre. Come il cane, che si era impadronito del suo letto non appena aveva capito che sarebbe rimasto vuoto per sempre. Quella stessa sera in cui mia sorella scomparve – la sera in cui ancora non sapevamo che si sarebbe portata mia madre con sé –, sparì anche la mela di peltro, dal mobile dell’ingresso. Conteneva qualche moneta da cinquanta, da cento Lire, e i nostri incisivi da latte, cavi e ingialliti. Non sapevamo quali fossero i miei e quali di Elena: erano i nostri, conservati insieme come vecchi bottoni della stessa giacca, spariti insieme come la nostra sorellanza. Quel corpo di bambina – il suo, il mio – aveva smesso di appartenermi nel momento stesso in cui mi era stato strappato, con la crudeltà di chi ti estirpa un dente da latte fingendo di volerti fare una carezza.

Ci volle qualche settimana per ricomporre l’equilibrio. Mio padre, il cane e io riprendemmo la nostra vita di prima, accomodandoci come potevamo, alla maniera d’un gatto cui hanno amputato una zampa, e che dapprima ha paura di muoversi dal suo giaciglio e poi, spinto dalla fame, dall’istinto di caccia, dalla dignità, s’inventa un passo dispari e torna a camminare, sgraziato eppure stabile. Portavamo il cane fuori a turno, mio padre al mattino e io alla sera, ed era più il cane a prendersi cura di noi, capobranco per affetto e per esclusione: era la bestia ad aver preso il posto di mia sorella, e adesso era il suo respiro che udivo, di notte, era la sua presenza, il peso del suo corpo sul letto di una bambina scomparsa. L’assenza di mia madre, invece, l’accettammo come un assunto: quella di Elena ne era il corollario, e ci sembrava quasi che fosse stata la sparizione di mia madre ad avere indotto quella di mia sorella, e non il contrario. All’inizio, la guardavamo disperarsi in TV – la sua faccia in primo piano e la foto di mia sorella in alto a sinistra, fissa come quella di una lapide, sebbene non ci fossero prove della sua morte; poi smettemmo. La vedevamo apparire, supplicare, – Ridatemi mia figlia! -, recitare numeri di telefono, ricordare com’era vestita, e cambiavamo canale. Non l’ho mai detto a nessuno, ma Elena non indossava la giacca rosa, quando è sparita: ho le prove. Quella giacca sta ancora nel mio armadio; lei c’è, mia sorella no. In venticinque anni, non è mai stata ritrovata. Mia madre dice che non è morta e forse ha ragione; magari Elena vive qui in paese, ha cambiato nome e ogni giorno ci guarda vivere, e ce l’abbiamo troppo vicina per accorgerci di lei. Chissà se prova pena per mia madre. Chissà s’è gelosa del cane che ha preso il suo posto; quando il veterinario gli ha iniettato il farmaco che l’ha ucciso, abbiamo fatto portare via il letto dove dormiva. Il suo letto, non più quello di mia sorella. Non l’ho cercata, non ho più pensato a lei; tranne quella volta sul tram, quando mi sono accorta di aspettare tutti i giorni una bambina sconosciuta ch’era mia sorella. Era lei, era lei che se ne va dalla lezione di violino e non torna a casa. Era lei, ed era sparita di nuovo.

Ci misi un po’ a riconoscerla. In un primo momento, trovarmi di fronte a decine di adolescenti sconosciute che giocavano a tennis mi aveva spinta indietro, mi aveva riportata ai mesi i cui mia madre era uscita dalla TV e ci era piombata in casa, aveva reclamato un posto che, ormai, mio padre, il cane e io eravamo riluttanti a restituirle. Fu un lungo periodo di occhi chiusi quello, di palpebre sigillate e coperte con le mie stesse mani, che mia madre mi toglieva a forza, obbligandomi a guardare. Mi portava davanti ai campi sportivi, davanti alle scuole di danza, di musica. – Cercala -, mi ordinava, – Sta’ attenta, accertati che non sia qui, che nessuna madre me l’abbia tolta -. Io andavo, tornavo indietro da sola e lei si arrabbiava; – Non hai guardato bene, torna a vedere meglio -, e poi di là ci spostavamo in un oratorio, sugli spalti di una piscina, sul ciglio di una strada statale, laddove s’apriva un campo nomadi. – Vai a prenderla, riportamela. Me l’hanno presa -, sempre prima persona singolare, e le bambine che incontravo non m’erano nessuno, erano germogli fini e senza grazia aggrappati alla terra, e temevo di reciderli per sbaglio, con la foga che mia madre m’imponeva. Ogni volta la deludevo e me ne volevo per non aver saputo frugare bene tra quelle vite che non erano la nostra – non quella di mia madre, né la mia, né, tanto meno, quella di mia sorella.

Quando riconobbi la bambina, le feci un cenno con la mano; lei sembrò sorpresa, sollevò la racchetta come per salutarmi, poi corse verso di me, la borsa a tracolla, e mi domandai dove avesse lasciato il monopattino, se qualcuno l’avesse accompagnata. – L’altro giorno ha perso questo -, mi disse, e mi porse il portamonete. – Le è caduto nel tram -. Era la prima volta che ascoltavo la sua voce; la vidi mordersi le labbra, come se fosse a disagio. – Mi dispiace se l’ha cercato per tutto questo tempo. Ce l’avevo io -, e fece per andarsene. – Aspetta -, la trattenni, – Grazie -, e istintivamente aprii il borsellino, guardai dentro, lo strinsi nel palmo. Poi, camminai verso il fiume e lo lasciai cadere; rimasi finché i cerchi concentrici non divennero un punto, finché non furono più nulla. Faceva freddo, era l’inizio di febbraio. Forse prima di notte avrebbe piovuto.