Figlia unica

Carlotta era nata da cinque settimane quando ce ne separammo. Non fu facile, cinque settimane sono un tempo lungo abbastanza per affezionarsi, per abbozzare una consuetudine. La mattina spegnevo la sveglia un attimo prima che suonasse, ma Carlotta aveva già gli occhi aperti, li vedevo brillare nel buio della mia stanza, o forse non erano i suoi occhi a brillare, ma quelli di sua madre. Da quando era venuta al mondo Carlotta, da quando dei tre feti che si portava in grembo ne era venuto fuori vivo uno soltanto, il suo sguardo era diventato come più acceso. Più triste anche, ma più tagliente, affilato come un coltello che per uccidere sfiora senza affondare: me ne ero accorta subito, sin dal primo giorno. I corpi senza vita erano venuti fuori come sacchetti umidi estratti a forza dal bidone della spazzatura e lei non aveva voluto nemmeno guardarli: solo Carlotta esisteva, Carlotta che si è chiamata così dal momento esatto in cui l’avevo saputa viva, diversa dai suoi fratelli, anche se aveva gli occhi chiusi. Il fremito che le scuoteva la pancia, l’odore pungente, diverso da quello dolciastro dei due morti, l’aspetto scomposto di chi vuole esistere, così lontano da quello accomodante di chi si è già consegnato alla rinuncia, non mi avevano lasciato il minimo dubbio. Carlotta era viva. Sarebbe rimasta con noi.

Mio padre non era d’accordo, aveva stabilito il suo destino prima ancora che avessimo la certezza della sua sopravvivenza: l’avremmo data via. Dopotutto, sua madre sembrava pensarla come lui; Tina, la meticcia che avevamo in casa da quattro anni e mezzo e che ci aveva adottati più di quanto noi non ci fossimo impegnati ad adottare lei, aveva dato ragione a mio padre. Nei primi giorni, dopo il parto, Carlotta era stata sua, sua come una parte di sé che s’è staccata dal corpo ed è caduta, e così l’aveva trattata: aveva cercato di ricucirsela dentro, di ricomporsi, di coprire con sua figlia il buco generato dalla maternità, come se Carlotta fosse stata una toppa. La allattava, la spingeva col muso, la leccava – tutto come deve andare, bestiale e impudica come un animale femmina, come una donna col suo primo bambino. Poi, cercava di morderla appena appena, come se stesse giocando, come fosse stato uno scherzo, ma era seria, era adulta, e ci mettemmo poco ad accorgercene: Tina voleva mangiarsi la figlia, voleva ingoiarla perché ne aveva persi due, di figli, due cani che s’era portata dentro e ch’erano nati morti, due creature che prima le avevano dilatato l’addome e poi, ingrate, glielo avevano svuotato. Carlotta, invece, non si faceva mangiare, c’ero io a fare la guardia, sicché Tina restò digiuna, vuota e digiuna e inerme come i due cani usciti dal suo corpo; si riavvicinò alla ciotola dell’acqua dopo due giorni di astinenza totale, ma non riprese a nutrire Carlotta. Non riprese nemmeno a volersela mangiare: la guardava, la annusava, e poi tornava al suo posto, Carlotta c’era ma non contava più, non era più buona a colmare il vuoto lasciato dagli altri due, non era più niente. Né più figlia, né più cibo, né più crosta sulla ferita. E lei, Tina, non era più madre; era un cane grosso accanto a un cane piccolo: sua figlia non esisteva più. Esistevo io, esisteva mio padre, esisteva lei: era tutto.

La mattina della separazione fu un sabato di maggio. Mio padre me lo aveva fatto capire dalla settimana prima, aveva iniziato a iniettarmi il siero della mancanza già dal lunedì, o dal martedì. Diceva: – Quando se la sarà presa Don Antonio -, oppure, rivolgendosi a Tina: – Tra una settimana saremo di nuovo noi tre, saremo di nuovo in famiglia -, carezzandole la pancia floscia, passandole una mano sul muso, scoprendole i denti che avevano cercato di dilaniare l’altra, la figlia, l’intrusa. Io non l’accettavo, lo ascoltavo e studiavo una soluzione, annuivo e già pensavo alla fuga. Già pensavo a mettermi in salvo.

Quel sabato mattina, mi svegliai presto; mio padre era già in piedi, ascoltava l’oroscopo in TV, e la cucina era impregnata del suo odore di dopobarba – non di quello di caffellatte, non di quello rancido della notte, non di quello bagnato di Tina. Lo salutai, poi tornai nella mia stanza, presi Carlotta tra le braccia, m’infilai la giacca e provai a farmela scivolare sotto, come se avessi voluto simulare una gravidanza, come se avessi voluto fingermi madre, donna, ciò che non ero ancora, ciò che non volevo diventare. Lei guaì, docile, mi guardai allo specchio, gravida e oscena: non andava bene. Non potevo. Sentii mio padre rispondere al telefono, ridere della sua risata ch’era più un colpo di tosse, ch’era più un soffocamento, ch’era più una mancanza d’aria e immaginai don Antonio all’altro capo del filo, immaginai la sua Ritmo grigia avviarsi da casa sua e parcheggiare sotto il nostro balcone, immaginai Carlotta tra le sue mani, tra quelle delle sue figlie, della sua grossa moglie, che a messa cantava più forte di tutti e che non avrebbe tardato a mollare Carlotta nel cestino delle offerte. * Ce la volevano togliere per farne cosa? per darla a chi? Perché? La volevano davvero? Davvero? Anche io la volevo: non l’avrebbero avuta. Allora presi lo zaino di scuola, la cacciai dentro: – Zitta -, le intimai, – Sta’ zitta -, e mentre mio padre ancora rideva al telefono con l’altro uscii di casa, presi la bici, lo zaino infilato davanti e Carlotta che mi piangeva sul petto, che m’inondava lo zaino e la camicia di urina, e pedalai verso il ponte, verso il campo-nomadi dove abitava Alina, dove abitavano altre donne che non conoscevo e che Alina chiamava zie, tutte le zie erano, bionde, coi denti d’oro, con la bocca dipinta di rosso e i motorini per accompagnare figli e nipoti a scuola. Sapeva tutto di Carlotta, Alina, e non mi disse nulla quando gliela ficcai in mano. – Ti regalo un cane -, le annunciai, – A casa non c’è spazio per lei -, e Alina rise, – Sei figlia unica? -, e abbracciò il cane che tremava, lo cullò come fosse stato un bambino, come fosse stata lei una mamma: già tutto sapeva. Aveva undici anni e già era capace di prendersi cura di Carlotta; aveva nove anni e già sapeva essere madre di mia sorella.

Dopo quella volta, tornai ancora a trovarle: a trovare Alina, a trovare Carlotta. Andavo a piedi, camminavo fino al ponte e poi oltre, e la sera era la mamma di Alina ad accompagnarmi a casa, premevo la faccia contro la sua schiena, in sella al motorino, e piangevo, le bagnavo la camicia come Carlotta aveva fatto con me, quel giorno in cui l’avevo abbandonata. Di meticce, al campo nomadi, ne conobbi tante, erano diventate sorelle di Carlotta. Erano cagne vecchie e cuccioli appena nati e già guastati dalla rogna, erano cugine, sorelle di Alina, figlie ora d’una madre ora d’un’altra, ora di tutte. Si assomigliavano, impilate in due dietro una donna, sulla sella d’un motorino, e mi domandai spesso se anche Alina dovessi considerarla sorella mia, o cugina, e se là dentro, tra tutte quelle figlie di tutti e di nessuno ci fosse mia sorella, quella vera. Carlotta, ma non il cucciolo di Tina che avevo abbandonato, cavandolo come un molare dalle braccia di mio padre; Carlotta, ma non la bestia, bensì mia sorella, figlia di mia madre e d’un uomo che non era mio padre, Carlotta che mia madre mi aveva piantato accanto e poi m’aveva sradicato, andando via con lei e con quell’altro uomo, lasciandomi sola con mio padre. E lui, mio padre, per colmare il vuoto lasciato da sua moglie e da quella bambina meticcia – per cinque anni s’era attribuito una somiglianza che non poteva esserci: il naso, la curva delle sopracciglia, della bocca, in realtà uguale a quella dell’altro – aveva preso Tina. Un’altra meticcia, buona a farci da sentinella, a tenere lontani gli estranei, a dividerci, mettendo il suo corpo fra me e lui, a farci da ammortizzatore, da cuscinetto di carne, per attutire i colpi che mio padre e io non ci risparmiavamo, e dicevamo colpi per non dire colpa, la colpa del tradimento, dell’orfanità, della solitudine. La colpa dell’amputazione senz’anestesia che ci aveva privati di sua moglie e di mia madre, di sua figlia e di mia sorella. Di Carlotta, che avevo perduto – occhi, bocca, mani sporche e le mie vecchie scarpe ai piedi, il mio stesso odore ma sangue diverso – e che avevo visto rinascere da Tina, uscire dal suo grembo deforme, dal suo sesso spalancato come una bocca insanguinata. Fu difficile darla via, Carlotta, ma sapevo ch’era con Alina e, in fondo, speravo che con Alina ci fosse la Carlotta vera, mia sorella che andavo dimenticando. Speravo che con Alina ci fosse mia madre. Che faccia aveva avuto? Non lo sapevo più, ma non ci misi molto a sapere che non viveva al campo-nomadi con Alina e che non guidava il motorino come le zie. Stava in un quartiere nuovo e pulito, guidava un’auto che imparai a riconoscere: con quell’auto accompagnava Carlotta a scuola, dal dentista, con quell’auto andava al mare, a fare la spesa, con quell’auto tornava in una casa che non era casa mia. Non andai a trovarla, non la cercai mai, né lei, né mia sorella. Mi guardavo intorno, quando Alina mi faceva accarezzare Carlotta, la baciavo tra le orecchie, ma come avrei baciato una sorella viva; Carlotta e mia madre, invece, in qualche modo erano morte. Di che colore avevano gli occhi?, mi mettevo alla prova ogni tanto, avanti, di che colore? Lo sai o no?, ma pensavo al marrone di quelli della cagna, pensavo al tepore di quando mi aveva orinato sul petto, a quando mi vedeva arrivare e sapeva chi ero, e sapevo chi era.

Mia madre è morta sei anni fa. Me lo ricordo, perché fu Annarita a dirmelo, quando accadde. Mi telefonò, – Dobbiamo vederci -, e io non potevo, ero finita dietro le sbarre della tabella oraria dei turni, delle guardie, delle sostituzioni. Allora venne a prendermi con la sua auto, – Ti accompagno in ospedale -, e si prese il camice sporco, mi promise di riportarmelo quella sera stessa. – Più è bianco e più la gente si fiderà di te -, mi rimproverò, e intanto la vedevo irrigidirsi mentre guidava, indugiare allo scattare del verde e imprecare fuori dal finestrino, come a voler sostenere con la sua voce sola il frastuono dei clacson. – Tua madre è morta -, mi annunciò, guardando dritto davanti a sé. – Non volevo che lo sapessi da qualcun altro -, e “qualcun altro” erano i manifesti funebri appesi in paese, “qualcun altro” erano i necrologi pubblicati sulla stampa locale, “qualcun altro” erano le notizie che ci si passava sottovoce, ma contando sul potere del contrabbando di corrompere anche bocche che hanno prestato giuramento. Qualcun altro era mio padre, che era arrivato ad Annarita dopo Tina, dopo l’abbandono di Carlotta, dopo la solitudine e ci aveva affidati a lei – ci aveva affidati insieme: lui e me – come ci si affida a una speranza in cui non si crede, come ci si arrende a un amore che non esiste. – Tua madre è morta -. Non ne soffrii, dopotutto non la vedevo da tempo, e sebbene Annarita non l’avesse mai sostituita – non sono tua madre!, mi ripeteva spesso, esorcismo di una paura e insieme promessa di fedeltà –, la sua presenza, accanto a mio padre e dietro di me, aveva riequilibrato il nostro disordine famigliare. Soprattutto da quando Tina se n’era andata ed ero stata io stessa a seppellirla, io da sola, giacché mio padre non aveva voluto accompagnarmi. Forse gliene voleva ancora, a quella randagia, forse ce l’aveva ancora con lei, femmina meticcia che non ne aveva voluto sapere della maternità, bestia che ci aveva protetti rinunciando ai figli suoi, alla sua unica figlia, Carlotta, che io avevo affidato alle mani di Alina, che avevo amato davvero per cinque settimane appena.

Non avevo più pronunciato quel nome, Carlotta. Stavo sempre attenta a evitarlo, persino quando pensavo a lei; alla cagna, ma anche a mia sorella: in fondo, loro due si sovrapponevano. Dev’essere per questo che ho fatto fatica, l’altro giorno, quando me la sono ritrovata davanti, nel registro dei pazienti, nome e cognome, poi nella sala d’attesa del mio studio medico, poi sulla porta dell’ambulatorio. – È per la mia bambina -, ha esordito, mostrandomi la creatura, un fagotto rosso di collera e umido di moccio, che stringeva al petto come fosse stato un cane. – Voglio sapere se mia figlia mi vede, dottoressa, voglio sapere s’è miope. Me lo dica lei -, mi ha supplicata, e col dorso della mano s’è tirata su le lenti da vista, spesse e opache come quelle d’una vecchia, gli occhi minuscoli puntati sui miei dubbi. Le ho spiegato che non ero una pediatra, che non potevo fare nulla per la sua bambina, che era troppo piccola perché potessimo stabilire s’era miope o no e che quelle erano questioni che si affrontavano crescendo. Lei ha insistito e ho temuto che si mettesse a piangere. Ho cercato, nel suo volto, il volto di mia madre, ma non l’ho trovato, perché non me lo ricordavo. Allora vi ho cercato il mio e forse, per un attimo, sono riuscita a sovrappormi a lei, metà mancante di una figlia unica, sorella di sangue eppure sconosciuta. Parte di me estirpata senza anestesia e messa a germogliare in un’altra pianta. Lei mi incalzava, – La prego, dottoressa -, così le ho preso la bambina dalle mani; odorava di urina, di ruggine, di cucina. Odorava di estraneo; non riuscivo a vederle il colore degli occhi, non ancora: era troppo piccola – una settimana, dieci giorni al massimo – e il suo sguardo era ancora velato di blu, di grigio, di nero. Era ancora un buco affacciato sul niente. – È troppo presto -, ho concluso, e poi le ho chiesto perché, perché, signora? perché, sorella sconosciuta, vuoi saperlo? Cosa cambia se tua figlia è miope, cosa cambia capirlo sin da ora?, e mia sorella si è tolta le lenti, gli occhi le si sono dilatati sulla faccia. – Perché voglio essere sicura che possa vederci chiaro -, mi ha detto. – Perché voglio avere la certezza che almeno lei sappia riconoscere il volto di chi l’ama -.