Lasciarsi al supermercato

Ad accoglierci trovammo una pila di panettoni; una pila disordinata, più una catasta, legna da ardere ma ancora troppo fresca, impregnata d’estate, impossibile da incendiare. Era presto per dar fuoco a tutte quelle buone intenzioni – scritte d’oro su sfondi rossi, su sfondi blu, il rosa pallido del cartone del pandoro – ma, spostando il carrello per evitare l’impatto frontale – frana di canditi, d’uvetta, glassa al cioccolato –, spostando il carrello sentii chiaro il desiderio dell’incendio. Di un baccanale di dolci natalizi in pieno ottobre, con le gambe ancora nude sotto l’impermeabile, le caviglie sfigurate dalle punture di zanzare. Mio marito li guardò e scosse la testa, – Il prossim’anno li venderanno a Ferragosto -, e una donna sorrise, lui ripeté la frase, con la voce acuta che gli veniva quando sapeva di essere osservato, quella voce da femmina che subito attirava altre femmine – come il miele attira le api, come i neonati attirano le altre mamme, l’urina i cani: inseguiamo tutto ciò che viene dai noi stessi. Rivogliamo indietro tutto ciò che espelliamo, il mio gatto che tenta di mangiare ciò che ha vomitato, io che a sette anni perdo un incisivo superiore e provo a reinnestarmelo da sola, lo premo nel cratere della gengiva e lo spingo con la lingua, insensibile al sangue. La donna rise di nuovo, come se mio marito avesse pronunciato quella battuta per la prima volta, allora la voce di lui s’arrampicò ancora più in alto, insopportabile; mi diressi verso il reparto salumeria per non vederli più, per non criticare il piumino che lui s’era messo addosso, incurante dei diciotto gradi del pomeriggio. Stupido, stupido uomo; stupido e uomo. Mi raggiunse ch’ero ancora in coda, aspettavo il mio turno; in mano aveva un cartone di cereali per la colazione, di quelli pieni di zucchero e coloranti, buoni per bambini, o per adulti in viaggio di lavoro, da soli. Chissà quante volte doveva aver mangiato quella roba di nascosto – barrette di cioccolato al latte, coccodrilli gommosi, bastoncini di pesce panato –, chissà quante volte doveva aver mentito. Forse fingeva di far la spesa per un figlio, in quelle occasioni; forse dispiegava la voce negli acuti della finzione, faceva ridere la cassiera – la cassiera, femminile singolare, femminile, singolare e giovane; più di me. Più della moglie reale, senz’altro non più di quella immaginaria, madre di quei figli immaginari, quei figli che con me si poteva scordare e che si concepiva da solo, nelle parentesi di lontananza coniugale, nelle finestre spalancate, davanzali come vassoi offerti all’omicidio volontario del matrimonio. Lo vedevo, mio marito. Montava in equilibrio su tutti i parapetti affacciati sul vuoto, sul traffico indifferente di auto e di tram. Lo vedevo, mio marito: si sporgeva, inspirava, e allora la vertigine lo tirava indietro, chiudeva le imposte, si mangiava la paternità fittizia e la moglie ch’ero stata, che non ero più. Quella che poteva figliare; quella che poteva legittimargli l’acquisto dei cereali caramellati, del Nesquik, quella con cui contendersi la merce rara delle notti di sonno, quella cui dare la colpa dell’insonnia – è per i figli tuoi che non si dorme più, è per le poppate, per le coliche, per i pianti geroglifici. È per te, è per il bambino; non per noi, non per l’insofferenza, non per l’odore insopportabile della lozione anti-caduta, la testa sguarnita sul cuscino e gli occhi squadernati sulla parete. Ad avercelo, il bambino, la scusa; ad avercelo avuto. – Quella roba ti fa male -, proferii, fingendo d’ignorare l’evidenza che non per lui – versione ufficiale –, non per lui aveva comprato i cereali impastati di glassa e di grassi otturarterie, non per lui, ma -. – Sono per la bambina -, interruppe i miei pensieri, e notai che s’era tolto il piumino, che la camicia era d’un azzurro più intenso e pesante, sotto le ascelle. Mi concentrai sulle mani del salumiere, mani nude, senza guanti, un anello alla destra; perché lì e non dal lato opposto? Perché non a sinistra, che vuol dire? Mio marito disse qualcos’altro, ma non lo ascoltai, lo sguardo sulle fette di prosciutto crudo che sfiorava e allineava sulla carta, lo sguardo sul ricciolo di peli che gli adombrava il polso. Quando toccò a me, declamai i miei desideri come fossero stati un Salve Regina, trionfale e insieme voluttuosa, la mortadella e il salumiere, la superficie serica della bresaola e i suoi gesti morbidi, come una punteggiatura ben calcolata. La voce di mio marito era uno sciame di zanzare, una puntura d’insetto sulla pelle ancora esposta alla fine d’ottobre; le sue parole mi molestavano, turbavano la corrispondenza tra e me e il salumiere, un occhio al coltello e uno al mio volto sudato – un salume, ero un salume –, un occhio agli scarti di grasso e uno ai numeri sulla bilancia digitale. Pesava ciò che avrei pagato, pesava la possibilità, e mio marito quella possibilità la riportava a zero con la sua presenza, coi suoi acuti da controtenore. Castrato – e mi morsi le labbra. Mia, la colpa della nostra parità – due eravamo e due saremmo rimasti – e era mia. Mia soltanto. – Perché hai preso tutta quella… -, provò a recriminare, quando ebbi finito col salumiere, una volta arresa all’abbandono, all’inevitabile. – E tu perché hai preso quei cereali? -, lo bloccai, – Perché? Perché ingozzare i bambini di cibo per bambini? -. Gli occhi gli si dilatarono, sembravano uova, uova pronte a uscire dal guscio. – Non può mangiare ciò che mangiamo noi tua nipote? Ah no? -, e alzai la voce, le mani sui fianchi. – Ah, no -, e mi fermai nel mezzo della corsia dei surgelati, – Ah, no. Non può. Mi devi riempire la casa di cibo per bambini. Ammettilo che lo fai apposta -, e nella voce iniziò a penetrare il pianto. Brava, hai imparato: ti sta venendo bene. Cercai il mio volto nel riflesso della vetrata, la mia faccia sullo sfondo e dietro il merluzzo Findus, i capelli da tagliare e le crocchette di patate prefritte. Perfetto, era tutto perfetto. Mio marito non rispose; chinò il capo, senza guardarmi, senza difendersi. – Ammettilo -, ripetei, delusa dalla sua mancata reazione, la paura che si mettesse a piangere e tirasse me dalla parte del torto, nella metà di campo ch’era sua, che spettava a lui. Alla radio stava passando una canzone insopportabile, musica dozzinale che non mi veniva in aiuto; nessuno s’era accorto di noi, del nostro litigio – mio, avevo fatto tutto da sola. Peccato. Recuperai il carrello, lo emendai dalle sue cose: via i cereali, via la Nutella, che pure avrei tenuto per me, leccando gli avanzi dal coltello, dopo averla spalmata sul pane per la bambina. Via il suo bagnoschiuma, via le olive denocciolate, via il latte UHT: via tutto. Lo intercettai in fondo alla corsia delle conserve. Aveva un barattolo di confettura in mano – la mia, quella priva di zuccheri, quella che mi descriveva per come non ero – ed era chino su qualcos’altro. Mi vide arrivare e s’alzò, sorrise, le luci artificiali sulla giuntura del dente ricostruito e giallo, un taglio sul mento, il giubbotto sulle spalle, sbilenco. – Ho trovato questa -, e posò il barattolo nel carrello; non so se s’accorse della mancanza – i cereali, la Nutella, il detergente –: l’avevo cancellato insieme alla bambina, maledetta paternità surrogata, maledetta bestia: solo a riprodurti pensi. Fallo tu un figlio, fallo da solo. Andai verso le casse, lui dietro di me, afferrai un panettone, non dalla cima della catasta ma dal mezzo, sperando in una frana, in un disastro che non venne, e mi misi in coda. Lui dietro, lui accanto; – Non è presto per quello? -, m’accusò, mezzo sorriso sbreccato, sudore sulle tempie devastate dagli ormoni. – Non è tardi per giocare a fare il padre? -, replicai, attacco, contrattacco, e lui socchiuse gli occhi, gli vidi le palpebre fremere. – Agata -, potere pernicioso del vocativo, – Agata, ti prego -, e mi stava pregando davvero, le mani giunte, il giubbotto che precipitava a terra. – T’ho già pregato io, tante di quelle volte che ho smesso di credere -; una donna, davanti a noi, si voltò, squadrò prima lui e poi me, cercando il colpevole. – T’ho già pregato, e tu ogni volta ricominci. Ogni volta mi porti in casa questa gente -, e col fazzoletto mi tamponai la fronte: vista da lontano, ero una donna che piange. – Ogni volta mi ricordi, mi ricordi che… -, e le lacrime s’imposero senza un reale motivo. – Dammi le chiavi -, ordinai, la mano tesa, – Dammele, t’aspetto in macchina -, e lui obbedì, me le depositò sul palmo, gli voltai le spalle e uscii dal supermercato. Camminai verso l’auto, sbloccai le portiere, mi sedetti al posto del passeggero; poi, con un movimento laterale, scavalcai la leva del cambio, mi spostai al volante. Misi in moto e me ne andai, misi in moto e abbandonai mio marito alle casse, il carrello pieno d’una spesa inutile, il carrello svuotato dalle cose che aveva scelto lui. Anch’io ero stata scelta, ma ormai non m’avrebbe trovata più. Ero sparita, come il cartone dei cereali, come la Nutella. Come il bagnoschiuma al vetiver, che puzza di vecchio.

Non ci lasciammo quel pomeriggio, ma un paio di mesi dopo, durante le vacanze di Natale. Una mattina, mi svegliai sudata, il corpo intorpidito, come se un gatto mi si fosse addormentato addosso. Mi voltai e mio marito era là che mi guardava, che m’immobilizzava le gambe con le sue, la barba del giorno prima che gli anneriva il mento. Provai fastidio per la sua presenza e insieme desiderio per quel suo corpo altro e fratello, per quel suo odore estraneo e mio, e non ebbi il tempo di domandarmi quanto mi ripugnasse e quanto mi attraesse, non ebbi il tempo, perché mi ritrovai sul suo corpo – il peso adesso ero io –, nella sua bocca, alito del mattino e delle sigarette della sera, segreto d’un’abitudine ritrovata che aveva saputo nascondermi bene, che avevo saputo ignorare con cura. Non ebbi il tempo perché tutto finì, lui mi si sdraiò accanto, spossatezza immotivata sua e mia, vergogna ed esaltazione per quella prossimità che avevamo dimenticato, esaltazione e sorpresa. Non ebbi il tempo perché la nostra cerimonia non si chiuse con l’amen, non ci congedammo in pace, ma aprimmo il fuoco, nudi e disarmati, il riscaldamento rimasto acceso tutta la notte, l’intimità che – con forza uguale e contraria – aveva risvegliato il rancore, il disamore, il non detto. Ci scontrammo e fu come lanciarsi in mare da una rupe, fu un tuffo pesante e violento e scomposto: tornammo a galla lontani, pronti alla separazione. Infranti. Il nostro matrimonio non aveva saputo accomodarsi nella parità, la solitudine d’essere due l’aveva azzerato, reso nullo: ci aveva riportati a noi stessi, numeri primi isolati e singolari. Eppure, era stato proprio il bisogno d’essere due a farci incontrare, anni prima, era stato proprio il tre a pretendere una semplificazione, giacché prima – prima di me – lui stava con un’altra donna, una donna che avrebbe sposato, che non sposò più per sposare me: la solitudine da lei, in quei primi mesi, era stata l’obiettivo, la finalità. La solitudine da lei era stata la preghiera corale, di lui e mia, lei era il controcanto, contrappunto stonato da zittire in favore dell’unisono. È l’unisono che dio ascolta: la voce sola, pari, la voce facile da capire. L’uniformità degli intenti è ideale da dominare, è facile. Sicché c’eravamo sposati e subito mio marito aveva preteso un figlio, e subito la solitudine di noi due – desiderata e conquistata al prezzo d’una guerra: non vittoria, ma armistizio per sfinimento –, gli era venuta a noia. L’aveva voluto, suo figlio, l’aveva invocato, gli spettava di diritto, e sarei stata io a darglielo, io ad accontentarlo, a sfamare il suo appetito di padre: io ero la dispensa spalancata, prenditi le uova, io ero il paiolo, adesso cuocile, aspetta che siano pronte. Solo che il mio corpo non aveva funzionato, gl’impulsi elettrici del suo sesso non lo attivavano, nessuna spia d’accensione s’illuminava mai. Ci provammo per un anno: nulla; sentimmo medici, omeopati, parlammo con ostetriche, guaritrici, suore. Piangemmo – lui, lui piangeva – molto, c’inginocchiammo ai piedi di santi e primari, ingoiammo – io, io ingoiavo sempre – pillole, preparati, pozioni, l’eccesso di saliva d’una nausea da digiuno. Non ci riuscimmo mai; trasformammo il letto in una scacchiera – bianchi contro neri, di che colore ero io? –, convertimmo le vacanze in turismo da fecondazione assistita, i litigi in lunghe parentesi d’astio e di silenzio, il rancore, poco alla volta, lo sostituimmo con l’indifferenza. Il desiderio di paternità lo traslò su un surrogato, su un fantoccio: prese a ospitare sua nipote, nel fine settimana, prese a fingersi padre la figlia di sua sorella, figlia d’altri, ma sapevo che era per me che lo faceva, sapevo che era per infliggermi una maternità che non mi era concessa. Che, forse, il mio corpo non desiderava. Dopo quella mattina, durante le vacanze di Natale, dopo quei pochi minuti di recupero, impregnati di sudore e di liquido spermatico, ci separammo. Fui io ad andare via di casa: tornai da mia madre, nel mio letto d’adolescente, tornai indietro per prendere la rincorsa, per poter correre più forte, per potermi andare a schiantare con una violenza ancora più smisurata. Questo, però, ancora non lo sapevo. Mi ci volle qualche settimana per capire. Poi, mi fu tutto chiaro.

Adesso è passato quasi un anno dal litigio al supermercato e oggi è la prima volta che esco col bambino. Siamo venuti a fare la spesa e mi pare strano vederlo nel passeggino, che è come un carrello, e il bambino è come una confezione di biscotti, una lattina di fagioli, il bambino è un barattolo di sugo già pronto, di pesto genovese, è un cartone di latte intero, che non posso più bere, perché sono diventata intollerante. E pensare che ne produco io stessa, eppure sono intollerante: forse si diventa insofferenti nei confronti di ciò che viene da se stessi. Forse anche il bambino mi diventerà insopportabile, mi diventerà dannoso come un veleno: come il latte. Lo tolgo a me, lo do a lui, e resto a guardare mio figlio che beve, mio figlio che adesso dorme e non riesco a sopportare l’idea che sia fuori da me, fuori dal mio corpo: è come spingere nel passeggino un polmone, un rene, il fegato, il cuore, povero muscolo reciso dalla carne e adagiato tra lenzuola pulite. Era proprio necessario? Non potevamo lasciarlo lì dov’era? E il bambino pure, non potevo tenermelo per sempre in grembo, per sempre là, protetto, nascosto?

Siamo venuti a fare la spesa ed è così tanto che non esco – mi sembra un tempo infinito, da quando Leo è nato non so più contare le ore, i giorni, non distinguo più le cifre: pari o dispari? – che il supermercato mi pare un posto nuovo. Sconosciuto. Anche il salumiere è estraneo: erano sue quelle mani che accarezzavano il prosciutto, che sfioravano la mortadella come fosse stata velluto? Sue? Possibile? Faccio la fila alle casse e sorveglio le coppie, mi accerto che non litighino, ne diagnostico la morte – staccate la spina! –, provo a calcolare tempi di sopravvivenza e speranza di vita, quanto in percentuale, ma di nuovo le cifre mi sfuggono, mi lascio distrarre dal bambino che geme, dal bambino che strizza gli occhi, poi piange, urla, si dispera, vuole uscire, no, vuole rientrare – non a casa ma dentro di me, dentro al mio corpo, materia informe dentro quello del padre. Mio marito: lo cerco con gli occhi, lo vedo, curvo, le orecchie grosse e sottili – fa’ che Leo non le abbia prese da lui, fa’ che. Gli vado incontro: – Dammi le chiavi -, ordino, la mano tesa, – Dammele, t’aspettiamo in macchina -, e lui sorride, prende tra le braccia il bambino che non smette di maledirci, la sua voce strozzata e perforante che detesto, che lui invece sembra amare. – Non preoccuparti -, dice, – Non c’è bisogno: t’accompagno io -, e molla il carrello al centro della corsia, si stringe il bambino addosso, mi lascia sola col passeggino vuoto, con la spesa ancora da fare.