Bassa temperatura

La lezione di musica era finita da più di mezzora, quando iniziò a piovere; raccolsi la custodia del violino dalle scale, dove l’avevo poggiata, e la strinsi tra le braccia, mi addossati alla parete. Col piede sfiorai la bocca della grondaia, poi lo ritrassi in fretta: la primavera precedente, avevo visto un ratto lì davanti. Un ratto morto; mia madre mi aveva detto che doveva essersi lanciato dal terrazzo, che doveva essersi ucciso. Come Francesca, la maestra di pianoforte; l’avevano trovata appesa a una trave nell’autorimessa del padre, la domenica di Pasqua. Me l’aveva annunciato mia madre, poi ce l’aveva raccontato meglio la vicina del pianterreno e, infine, l’aveva confermato Carmen, che andava in sagrestia a vestire i preti e, insieme ai merletti delle sottane curiali, maneggiava le notizie più oscure, quelle da mormorare e da rinnegare subito dopo, quelle da offrire a strozzo, giurando poi di non aver mai saputo niente, che dio possa fulminarmi. Era stata prodiga di farcitura e di condimento, non aveva tralasciato nulla, ma, appena aveva finito, s’era impossessata, rapace e furtiva, del bicchiere di vermut di mio padre, ne aveva bevuto un sorso – le si era ingrossato in gola e le aveva bagnato gli occhi, la faccia sfigurata da una contrazione mostruosa – e ci aveva proibito di parlarne ancora, di pronunciare quella parola che da sola era peccato mortale. – Non è stato un suicidio: è morta e basta -, altrimenti la messa funebre, a Francesca, non gliel’avrebbero concessa, e se ne sarebbe andata sottoterra senza un saluto. Mi piaceva la storia di Francesca, ch’era salita sul tetto di una Renault, s’era legata la corda al collo e s’era lasciata scivolare più in là, dove le gambe non toccavano, sospesa come un lampadario, come una caciotta bianca che si fa stagionare. Così era morta e così avevo smesso con le lezioni di piano: i miei genitori avevano venduto lo Strindberg usato e mi avevano mandata dal maestro di violino. Non m’ero dispiaciuta davvero, nemmeno per la morte della mia insegnante m’ero dispiaciuta. L’avevo registrata come qualcosa che non deve succedere, come un bicchiere che cade e sparge schegge di vetro e vino ovunque, come quando piove – quel pomeriggio pioveva forte, stringevo i denti e il violno e aspettavo mia madre –, come quando piove e sei ancora lontano da casa. All’inizio, quando la notizia del corpo penzolante di Francesca aveva iniziato a sfuggire dalla bocca di tutti – come i vermi bianchi del formaggio, che provi a trattenere, a spingere con la lingua contro il palato, e che a loro volta provano a salvarsi, a cercare una via d’uscita, e ti si arrampicano sugli incisivi, sulle labbra –, mia madre era stata di granito: al funerale non ci sarei andata. Per nessuna ragione ci sarei andata. Poi, quando mi aveva vista calma, seduta al pianoforte con le sonatine di Clementi di fronte, mi era venuta accanto, m’aveva presa per le spalle. – Soffri? -, mi aveva chiesto, e non avevo saputo rispondere. – Isabella: soffri? Sì o no? -, e allora avevo annuito, avevo mentito, mi ero di nuovo voltata verso Clementi, opera trentasei, do maggiore, ma mia madre aveva abbassato il coperchio del piano senza chiudere il leggio, e i tasti avevano urlato, stonati come gatte in calore. Mi ero spaventata, m’era venuto da piangere e mia madre s’era acquietata, ma non del tutto: aveva preteso che andassi al funerale, che mi disperassi, che provassi dolore. – Soffri? -, aveva insistito, tirandomi indietro i capelli col cerchietto nero, e io avevo pregato che mi facesse male, m’ero morsa le labbra, l’interno delle guance, m’ero strappata coi denti una pellicina morta dal pollice per farlo sanguinare. – Soffro -, avevo mentito di nuovo; – Brava -, aveva replicato, ma non era sciocca mia madre, aveva capito. – Ti piace il pianoforte? -, aveva voluto sapere, e io avevo annuito: mi piaceva, così lei l’aveva venduto e aveva preteso che fossi là, mentre gli operai se lo caricavano in spalla come una bara e lo portavano giù per le scale. Nemmeno quella volta avevo pianto; né l’avevo fatto in quel pomeriggio di pioggia, dopo la lezione di violino. Quel pomeriggio in cui mia madre non veniva a prendermi. Quando arrivò, era passata quasi un’ora; accostò l’auto al marciapiedi senza spegnere il motore, la vidi imprecare – la manovella del finestrino doveva essersi bloccata –, picchiare sul volante, infine aprire la portiera. Andai verso di lei, m’infilai dell’abitacolo impregnato di fumo e d’un odore dolce di fritto – notai una vaschetta bianca di plastica sporca di rosso, vicino alla leva del cambio. – Hai avuto paura? -, mi assalì subito; la manica della giacca a vento gocciolava, mi scuriva sui jeans un alone tondeggiante, come la sagoma di una tartaruga. Scossi la testa: non avevo avuto paura. Incastrai la custodia del violino tra le ginocchia e la chiazza bagnata s’allargò: ora aveva una punta, come una penisola; – Non hai avuto paura che mi fossi scordata di te? Che t’avessi abbandonata? -, insistette, e di nuovo feci di no, tirai su col naso. – Mi serve un fazzoletto -, e lei frenò, brusca, dietro di noi qualcuno suonò il clacson, poi qualcun altro ancora; – Piangi? -, e si sporse verso di me. No, non piangevo; m’ero strappata di nuovo la pellicina dall’unghia del pollice e una gemma di sangue adesso mi pulsava sul dito. Se non lo avessi ripulito con la lingua, avrei rischiato di sporcare il tessuto del sedile.

Di episodi come quelli – mia madre che tardava apposta, che mi privava di qualcosa che mi piaceva, che avevo scelto, solo per testare la mia soglia d’indifferenza al dolore – ce ne furono tanti. Gli anni passavano e aumentava l’esponente della funzione matematica con cui lei si sforzava d’infliggermi una sofferenza pur di vedermi rispondere, pur d’intuire un’ombra riottosa nella mia reazione, per stanare un sentimento che mi considerava incapace di provare. Mi organizzò feste di compleanno per poi annullarle quando era tutto pronto, mi escluse dalla lista dei regali di Natale, si sedette ad aspettare la devastazione dei primi fallimenti, delle umiliazioni nascoste dentro ai baci precoci, dentro l’agitazione di corpi adolescenti che si strofinano su altri corpi, sperando di lasciare una traccia olfattiva, animale, per poi realizzare d’essersi soltanto feriti, d’aver offerto le mani a una trappola per topi, avendola confusa con la lampo dei calzoni d’un maschio. Non si saziò: la sua fame, non seppi mai nutrirla abbastanza. Non che non soffrissi: le privazioni, le dimenticanze, la morte della maestra di piano e la separazione dallo strumento – mai la magrezza del violino riuscì a compensare la perdita del pianoforte, il suo amore generoso e soffocante –; non che non soffrissi. Passavo attraverso disillusioni, disfatte, dolori, come fossero stati una pioggia di poco conto. Chinavo il capo, curvavo le spalle, non mi concedevo deviazioni. Vivevo i sentimenti – disamori, frustrazioni, entusiasmi – per così dire, a bassa temperatura. Erano fastidi di fondo, erano un prurito trascurabile sotto la pianta del piede, erano un acufene che non accenna a tacere, ma che non urla abbastanza da essere confuso con una presenza reale. Erano un mal di denti impossibile da localizzare, erano un male che non sai definire e allora t’illudi d’averlo inventato, ti dici: passerà, ma non passa, allora vivi col male. Ti abitui. Così m’ero abituata al tradimento di Antonio, così non avevo pianto, non l’avevo maledetto il giorno in cui l’avevo trovato in casa nostra con una donna di cui non avevo trattenuto il nome – Maria? Luisa? Forse Antea –, né quando mio padre se n’era andato una settimana prima del mio matrimonio. L’avevo visto che lo caricavano su un’ambulanza, come anni prima avevano caricato lo Strindberg su un furgone, e poi l’avevo rivisto nella camera mortuaria. Non avevo pianto; – Non soffri? Nemmeno per la morte di tuo padre soffri? -. Non avevo annullato il matrimonio: m’ero sposata lo stesso, abito bianco e senza una lacrima; cinque mesi dopo ero rimasta incinta, poi avevo abortito e non era rimasto più niente. Ero stata madre per quanto? Settimane, otto, nove settimane. Sono lunghe, nove settimane, sono il tempo che ci vuole a un’abitudine per installarsi. Il tempo che ci vuole a un fungo per colonizzare. Ero stata madre e poi non lo ero stata più. Si cede la propria identità al corso delle cose, si baratta ciò che si è con qualcosa che a volte vale di meno, a volte di più, a me del valore non importava, dei soldi, della quantità, dell’intensità: non m’importava. Sfiorare era più facile che toccare: mi teneva al riparo dalla contaminazione, dal contagio. Mi manteneva pulita.

Mio figlio nacque il primo di gennaio, un anno e mezzo dopo l’aborto – un anno e mezzo dopo il fratello. Accolsi la sua venuta come avevo accolto gli amori d’adolescenza, come avevo accolto la donna che aveva preso il mio posto, nel letto di Antonio. Nei primi giorni, strinsi il suo corpo, mi portai la sua testa fra la spalla e il mento – pesava come un violino –, lo guardai dormire, mangiare, piangere, e aspettai una passione che non venne, uno sconforto che non venne. Lo accarezzai con la cortesia con cui si vezzeggia il cane d’un’amica, il gatto della vicina di casa. Mi era caro; ma se non pensavo a lui, se non pensavo al mio matrimonio, a mio padre nella cassa, alla maestra di piano che ciondolava da una trave, una pozza d’urina sotto il suo corpo appesantito dalla morte, se non pensavo a lui, lui non esisteva. Se non mi dicevo: – Mio figlio dorme di là -, mio figlio non era mai nato. Non c’era. Il suo pianto non risvegliava nulla in me: ero un arto atrofizzato, livido, prossimo all’amputazione. Ero morta, ma nemmeno questo mi faceva soffrire.

Non era così. M’accorsi di essere viva una mattina, scendendo le scale. Seduta sui gradini fra il terzo e il quarto piano c’era una donna; la vidi subito, di schiena, appena chiusa la porta di casa. Si sporgeva in avanti, i capelli raccolti, la nuca nuda, le spalle squassate dal pianto. Le passai accanto, la sfiorai con la punta della scarpa: non stringeva a sé le ginocchia, come avevo creduto – ancora credi, ancora ti fidi? –, non stringeva se stessa, ma una creatura, un figlio che non emetteva suono, la bocca e il naso schiacciati contro il collo di lei, le piccole cosce nude e bianche, le piante dei piedi d’un rosso violaceo e malato. Ci guardammo: soppesai i suoi occhi, l’ombra nera e grassa di trucco, un filo trasparente che le colava dal naso. Il battito cardiaco mi diventò metallico, come una moneta che ti scivola dalla tasca e cade, rimbalza sul pavimento, e sentii una puntura nella pancia, un ago perforarmi lo stomaco, la vescica, conficcarsi nel pube; non la conoscevo – chi sei, dove abiti, di chi è quel figlio, dallo a me, dallo via. Non la conoscevo; ma quella mattina, quella donna senza nome, quella faccia bagnata e gonfia, quella mattina, quella madre con figlio, quella madre che soffocava il pianto del figlio – era una madre?, era suo figlio? – mi restituirono la vita. La certezza di non essere morta. Tornai a casa a mezzogiorno e li ritrovai dove li avevo lasciati; stavolta accelerai, quasi corsi verso l’uscio. Non salutai mia madre: era in cucina, il volume della TV al minimo per non svegliare il bambino, la seggiola vicina all’apparecchio – compensare con gli occhi l’assenza di suoni, accecarsi pur di non innescare un pianto d’infante. Irruppi in camera da letto, strappai mio figlio dal viluppo di lenzuola, le mani sporche di metropolitana, il cappotto freddo di morta risalita tra i vivi. Lui aprì la bocca e urlò, spalancò la sua grossa bocca vuota e pianse, e me lo premetti addosso come prima avevo visto fare all’estranea, e mi sedetti in terra come lei, le scarpe ancora ai piedi, le urla dell’alieno – mio, figlio mio – attutite dalla sordina del mio corpo, dal montone sintetico, dai bottoni di plastica conficcati nella sua guancia. – Che fai? -, mia madre m’aggredì, s’inginocchiò, come chi ha peccato e implora una grazia, – Nemmeno pena per la tua creatura hai -, mi condannò con rito abbreviato, – Nemmeno una cosa tua sai amare -, ma io non l’ascoltavo. Cercavo, nello specchio – spostati, mamma, lèvati –, cercavo nello specchio la mia immagine. La volevo uguale a quella dell’estranea, volevo l’estranea: dimmi chi sei, dimmi che vuoi, perché m’hai salvata.

Era al suo posto anche l’indomani. Stavolta, il bambino piangeva e lei pure, piangeva e si lamentava, emetteva il vocalizzo ascendente d’un cane femmina lasciato solo durante il parto, cullava col suo corpo le urla del neonato, distorcendone il suono. La superai, mi fermai al piano di sotto, chiusi gli occhi: quella donna ero io. Quel pianto, quel dolore, quella disperazione mi appartenevano, erano miei, erano il pianto, il dolore, la disperazione più veri che avessi mai vissuto. Chiamai l’ascensore, tornai a casa; come il giorno prima, estirpai mio figlio dal sonno, lui aprì la bocca per insultarmi col suo pianto, per rifiutare il mio amore, per rigettarmi. Lo cullai, ricalcai i gesti della donna sulle scale – potere dell’imitazione, invenzione nata da una mancanza –, poi con la voce ne accompagnai il lamento. – Che fai? -, arrivò pronta l’accusa di mia madre, ma io non l’ascoltai, continuai a scuotere il corpo di mio figlio, il mio. Uscii sulle scale, mi sedetti in terra – parallela all’altra, piano sotto, piano sopra –; niente. Non sentivo niente. Capii allora che era presto, che dovevo osservarla meglio, che la scuola era appena iniziata e dovevo studiare. Che quella donna era un vangelo di parabole e di dogmi, che suo figlio, che lei, che loro due insieme erano qualcuno in cui credere. Che io ero la destinataria d’una rivelazione.

Cercai di sapere dove abitasse, come si chiamasse, quanto avesse il bambino – mesi, settimane, giorni. Cercai di capire il perché di quei pianti, li spiai, li ascoltai, provai a interrogarla, ma sembrava troppo stanca per capirmi, troppo lontana per rispondere. Provai a indovinare la sua età, se avesse un marito, se sentisse freddo; come lei, come il suo bambino, piansi ogni giorno. Piangere divenne pratica quotidiana, esercizio di pazienza e di resistenza – come gli arpeggi al pianoforte, poi al violino. Li amai, silenziosa e devota: furono il mio conforto, la possibilità dell’assoluzione, odi e vesperi recitati alla cieca, le mani giunte per scaramanzia. Poi, un giorno, se ne andarono. Li cercai, chiesi di loro due, scavai con le mani – terra sotto le unghie e tra i vestiti, terra in bocca: scricchiolava quando, resa miscredente dall’avvilimento, masticavo maledizioni –; scavai con le mani nel tentativo di rinvenire la memoria dei loro corpi, quello della madre e quello del figlio, natività pagana, annunciata dalla luce d’una plafoniera condominiale. Non tornarono più, passarono e scomparvero, talmente leggeri da non lasciare traccia, impronta, scia, resti, nulla. Allora, conobbi la tristezza, la disperazione ch’è figlia della solitudine, una solitudine nuova, acerba, una solitudine che incontravo per la prima volta e ch’era più forte di quella del giorno della morte di mio padre, della perdita del bambino – grumi di sangue che fino a poco prima chiamavi vita –, più forte di quella domenica di Pasqua, con la maestra di piano appesa al soffitto come una decorazione di Natale. Allora, conobbi il dolore, conobbi lo struggimento, conobbi lo sconforto. Allora conobbi l’amore. Per quel dolore, quello struggimento, quello sconforto non erano miei: erano fuori da me. E per questo mi erano chiari; e per questo, di quel male potevo goderne.

Sono nata dal dolore, sono nata con dolore, come tutti. E da quel dolore ho imparato a vivere.