Una confezione di biscotti al cioccolato. La intercetto da lontano – il blu, il rosso, il giallo della corona: il logo di quel marchio è un principe –, mi pare inverosimile. Cammino con calma, non corro più, non ce n’è bisogno, adesso. I corridoi della metropolitana, da questa parte, sono vuoti; è di là che sta accadendo tutto – voci, lamenti, una canzone degli Stones che li sovrasta: è un altro cellulare che squilla, un’altra chiamata cui nessuno risponderà. Raggiungo i biscotti, mi chino a raccoglierli: intatti, brillano di supermercato. Miei. Mi strofino una mano sui jeans – via lo sporco, la strada, via tutto – e li scarto. Addento il primo – una crepa nel mezzo, sto attenta a non sbriciolarlo – e subito sento lo zucchero, la resistenza della crema al cioccolato, la pastafrolla montarmi alla testa, entrarmi in circolo. Mi viene da piangere, no, devo starnutire, no: vado, mi caccio i biscotti in tasca e mi dirigo verso il rumore, verso le voci. Rallento davanti a una borsa della spesa abbandonata in terra – tonno in scatola, pizza surgelata, savoiardi –, mi fermo ed esito; m’inginocchio, ispeziono la pizza, una saponetta profumo lavanda, infilo il tonno nella vita dei pantaloni, cintura antiproiettile d’una cena sicura, protezione d’olio d’oliva e di pesce in scatola. Strano pesce il tonno: tondo, rosa, senza faccia, buono per entrare giusto-giusto nella lattina. Conferma esatta dell’utilità d’una debolezza, d’una mancanza, d’una menomazione: è una creatura muta, nata per essere ficcata in una scatola e mangiata. Non te le dicono queste cose a scuola. Mi spettino i capelli – sembrerò stravolta, addolorata, devastata. Lo sono da quando sono nata –; scavalco un corpo. Un corpo: vedo solo il telo argentato che lo ricopre, forse è una donna. Chissà se ha soldi in tasca. Qualcuno piange, una madre abbraccia suo figlio che invece non piange, non ride, sembra annoiato, forse ha fame. Non avrà i miei biscotti; agenti della polizia ovunque, bagliori di corpi morti, sparpagliati ovunque, come avanzi di cibo avvolti nella stagnola. Cerco una donna – un surrogato di madre –, non la trovo; punto allora un uomo, gli vado accanto. Chissà se sono sconvolta, chissà se sono triste, disperata – quello sì, quello senz’altro. – Ho perso mia madre -, dico, e mi tocco gli occhi, – Ho perso mia madre -, e mi copro la faccia con le mani, lui me le stacca dal volto, mi chiede chi sono, come mi chiamo, dov’ero quando è accaduto, dov’ero e quando, come l’ho persa, quanti anni ho. Rispondo Nina, Antonina Mariotti, rispondo l’ho persa nell’incidente, nell’esplosione, nel buio, rispondo è morta e sono scappata, rispondo ho visto le braccia molli e pesanti come un cane investito, il sangue. L’agente mi ferma, scuote la testa, chiama una collega, una donna, e allora mi spavento, mi dispero davvero – ma non volevi una donna, prima? Non volevi un surrogato? –, mi hanno scoperta, sicché continuo a mentire, soffio nella bolla dell’invenzione. Mi chiamo Nina, ho tredici anni – ho le mestruazioni, fa’ che non lo scoprano –. Incrocio le gambe come a trattenere l’urina, ho dodici anni, no, tredici, ero qui in vacanza con mia madre e adesso lei è morta, è morta lì dentro. Mi chiamo Nina, ho dodici anni, e l’agente donna mi offre una coperta, così mento ancora, portatemi via, mi portano via. Sfuggita a un attentato, no, a un incidente; sfuggita a un’esplosione e bugiarda, ho mentito affinché mi salvaste, ho mentito per avere una storia, una data, un inizio. Un compleanno.
Mi chiamo Rosalia; il cognome non importa, vi do quello di mio marito? Ho trent’anni; sono passati quindici anni da quel giorno – attentato, incidente, esplosione –. Sono passati quindici anni e questo è il mio vero nome, questa la mia età. Ho mentito, allora. Non ero Nina, Antonina Mariotti non ero io. Ero Rosalia, lo sono anche adesso: quella ero io. Questa che vedete oggi, pure.
Quando mi consegnai alla polizia – quel pomeriggio in cui fui vittima d’una tragedia non mia, quel pomeriggio di luglio in cui m’annidai in un male d’altri –, non pensavo, non sapevo che m’avrebbero creduto. Che le mie menzogne sarebbero state ascoltate, trascritte, analizzate, moltiplicate, elevate a potenza sui giornali. Non sapevo che il mio nome – falso nome, nome d’arte, identità fittizia. Ipertrofico io di chi non ha che se stesso, e di se stesso è madre, è padre, è sorella, è giudice, di se stesso è dio – sarebbe finito su una lista: questi sono i sopravvissuti, chiamateli eroi. Questi hanno perso tutto. Questa – io, questa sono io – ha perso la madre, starà bene in prima pagina, estetica d’un dolore estraneo, quanto rende l’orfanità? Quanto vende? Pagatemi in dollari, in barili di petrolio, pagatela più che potete, come un’opera d’arte di cui ignorate l’autore, ma il cui prezzo non inganna. Pagatela; e invece, a pagare fui io, le bugie non tardarono a galleggiare sul pelo dell’acqua, come pesci rossi collassati in una boccia. Passò una settimana, ne passarono due – come ti chiami? Diccelo! Qual è il tuo nome, la tua storia, la storia vera: diccelo! –, e dalle prime pagine fui declassata al registro d’una comunità d’accoglienza per minori. Avevo tredici anni, che in realtà erano quindici, mi chiamavo Antonina Mariotti e in realtà ero Rosalia, avevo mentito per salvarmi e c’ero riuscita. Ero venuta al mondo parlando, – Ho perso mia madre! -, e avevo iniziato a tacere appena nata: mi domandavano chi fosse mia madre – perché non mio padre? –, se avessi parenti, zii, nonni, se avessi fratelli, un indirizzo. Niente: non avevo niente, solo un’età segreta e un nome che non avrei rivelato, solo la salvezza in pugno, pugno ch’ero pronta a usare per difendermi, attacca e fuggi, e un grande silenzio. – Ci vai a scuola? Scrivici qui come ti chiami -, e mi avevano dato un foglio, una matita, ci avevo disegnato un fallo. – Scrivici qui il tuo nome, avanti: nome e cognome -, avevano insistito, e intanto la sera avevo un letto, la mattina caffellatte e pane, – Scrivilo qui -, e alla fine avevo ceduto, avevo di nuovo le mestruazioni. – Qui -, e con la N al contrario avevo obbedito: Nina Marioti, via una T, via la dignità, via tutto. Avevo quindici anni – tredici per loro – e l’ortografia d’una scolara di seconda elementare. A scuola, fino ad allora, non c’ero andata mai. Avevo vissuto con mia madre, Donatella: chiamarla per nome era l’unico modo per farla voltare. – Mamma -, invocavo a volte, e lei niente, non c’era, non c’ero. Avevo vissuto con mia madre, che a sua volta aveva lasciato la madre in un ospizio per gente che s’è scordata chi è stata; avevi vissuto con lei che aveva abbandonato la madre e il cognome, l’indirizzo e il riscaldamento nelle stanze. Avevamo vissuto negli appartamenti altrui, avevamo chiesto permesso, detto grazie, avevamo invaso, preteso, occupato: ci eravamo installate nei dolori degli altri, nei vuoti delle malattie, degl’incidenti, delle morti. Un vecchio veniva portato via in ambulanza e casa sua diventava nostra, una donna s’inginocchiava per strada – non davanti a un altare, ma di fronte ad auto parcheggiate e a cassonetti, non per fede ma per un infarto: chissà se pregava dio d’essere risparmiata –. Una donna si genufletteva sull’asfalto, il cuore che le frenava in petto come un andate-in-pace, e noi subito addosso: prendi il portafogli, prendi i gioielli, non ha niente in tasca, ha abbastanza, poteva avere di più. Andiamo altrove a vedere se qualcunaltro muore, se un’altra esistenza è cariata a dovere, tanto da offrirci il buco come residenza. Andiamo come piccioni – nidificano dov’è sporco; andiamo come ratti, come corvi, come mosce carnarie a pasteggiare con le carcasse, smezziamoci i resti, ma non facciamo a metà. Tu sei più grossa, avrai più di me, lei – mia madre – aveva sempre avuto più di me: una casa, una famiglia, soldi, documenti. Era andata a scuola, all’università, non io. Avevo quindici anni e non sapevo scrivere il mio nome; ero una donna e ciò che sapevo fare meglio era appropriarmi delle tragedie e convertirle in possibilità, era parassitare i dolori altrui, spellare i morti e vestirmi con la loro pelliccia. Farne mantelli, cappotti, farne mercanzia; quanto vale il dolore altrui: non pagatemelo in dollari, in barili di petrolio. Datemi un nome, una storia, ditemi chi sono: perciò mi consegnai alla polizia. Perciò mentii: volevo un indirizzo. Volevo una tregua, senza rinunciare al mio talento. Ma questo non potevo dirlo: mi feci muta per proteggerlo. Per proteggermi. Per proteggere mia madre.
Lo chiamavamo “il collegio”, l’indirizzo era difficile da ricordare: una via ch’era un viale, una topografia che si allargava alla zona industriale più che alla città. Eravamo venti, eravamo trenta ragazze, eravamo venti, trenta orfane dai genitori vivi: dicevamo orfane, per non dire sottratte, indesiderate, orfane per non dire abbandonate, estromesse, orfane, per non dire asportate. Mi chiamavano “la zingara” perché avevano saputo che mia madre occupava le case d’altri, perché qualcuno aveva detto loro – chi era stato? Il silenzio è un mio diritto, quanto vale il silenzio: ve lo pago, ve lo pagherò un giorno in dollari, in barili di petrolio che nemmeno adesso riesco a visualizzare come cosa reale –, mi chiamavano “la zingara” perché non una casa sola avevo avuto, ma tante, ma nessuna, ma letti matrimoniali dismessi da coppie spaiate dalla morte, dalla demenza, appartenuti a una donna prima che si spezzasse il femore, prima che le si guastasse il pancreas, prima che nell’utero le crescesse un cancro. Mi chiamavano zingara e non sapevano – stupide sorelle non di sangue mio, che vita v’aspetta? –, e non sapevano che non erano le case vuote ciò che cercavamo mia madre e io, non era la ricchezza d’altri, che sorvegliavamo nel mirino, non era la roba a interessarci, cacciatrici esperte, tiratrici scelte. Fiutavamo, passavamo al setaccio, inseguivamo e confrontavamo. Facevamo nostre le vite inadatte degli altri, i loro appartamenti disertati, le dispense in cui affondavamo le mani, i sottofondi dei cassetti o le buste da lettera soffocate di banconote e di medagliette del battesimo, buste attaccate col nastro adesivo sul retro dei quadri con la foto del matrimonio. Eppure tutto questo – case, dispense, cassetti, soldi – era una tappa intermedia, era il formaggio fuso che deborda dal toast e che lecchi prima di addentarne la mollica. Era un piacere in più. Il nostro vero obiettivo erano le miserie, le tragedie, gl’incidenti, gl’imprevisti che sconvolgono un’esistenza e la scoperchiano, la rendono vulnerabile, accessibile, nostra. Mi chiamavano zingara e non avevano ancora capito che non sapevo scrivere il mio nome, non ero mai andata a scuola, avevo vissuto in tante case d’altri – letti, divani, tappeti, poltrone, vestiti troppo grandi, da maschio, vestiti troppo nuovi per la strada –, ma io, proprio io che non avevo niente, avrei preso le loro tragedie – solitudini, abbandoni, traumi che non m’interessavano – e ne avrei fatto collane d’oro. Un giorno l’avrei fatto. Per quello ero lì, con loro: ero il veleno di vipera che alla fine strozza la vipera stessa. Ero la pianta cattiva che ti nasce in giardino, ma tu la scambi per qualcos’altro e non ci fai caso, la tieni.
Nel luogo senza indirizzo in cui fui fatta salva, stipata insieme ad altre bambine, ragazze, donne – facciamoci la guerra, prevaliamo l’una sull’altra, impariamo a vivere – ebbi diciassette anni, ne ebbi diciotto, andai a scuola di mattina, di sera, rubai dai cassetti delle mie compagne, le accusai, le condannai, ne pretesi l’esecuzione, risarcimento immateriale di torti che non loro m’avevano inflitto, ma le circostanze, il caso, mia madre. Ebbi diciott’anni e di nuovo fui fuori; ne avevo ventuno quando iniziai a lavorare in un consultorio: facevo le pulizie e la sera studiavo per una maturità che pretendevo, che m’era dovuta, più che a chiunque altro. Non m’ero salvata da sola? Non avevo invaso, aggredito, sottratto, banchettato coi resti di morti ancora tiepidi, che non avevo aiutato a restare in vita? Non bastava questo come scuola? Non bastava. Fu lì che incontrai Jacopo, quarantadue anni e una moglie che non figliava, quarantadue anni lui e lei quarantacinque, abbiamo speso troppi soldi – pari a centinaia di tasche di vecchie svenute, pari a decine di cassetti del comò estratti dai binari e rivoltati sul letto, pari a quanti stipendi miei? –, abbiamo speso troppo in cliniche, medici, liturgie della fertilità e non ci resta che il dottore del consultorio, non ci resta che farci dire gratis come fare a riprodurci, a quale santo rivolgerci prima di dormire. Così s’erano presentati Jacopo e la moglie – Marta, Maria, Laura: che m’importava –, tragedia minima della mancata moltiplicazione. Sapeste come m’era costato impararla, a diciassette anni, la moltiplicazione, sapeste com’è difficile quando i numeri li conosci soltanto stampati sulle banconote che non hai, quando le cifre hanno un colore: verde il 5, azzurro il 20, il 50? Viola. Il 100? Rarità del giallo. Fu lì che lo incontrai: facevo le pulizie e dopo indugiavo negli ambulatori, mi appiattivo nell’ombra dei camici – un giorno sarei diventata assistente, qualcun altro avrebbe pulito ciò che io avevo contribuito a sporcare. Prima di quel giorno, incontrai Jacopo, quarantadue anni e una tragedia, quarantadue anni e una mancanza, una moglie accanto ch’era un molare scavato e mai otturato, materia vivente esposta agli invasori, ai parassiti, spazio aperto che si offriva a me. L’occupai come mi aveva insegnato mia madre – eccola l’eredità: si tramandano i tarli con la credenza 1920, i vermi nella tappezzeria del divano, i documenti falsi e i registri da usuraio inchiodati in fondo a un armadio di famiglia. M’installai nello spazio eroso dalla frustrazione del suo matrimonio, mi nutrii della sua disperazione, mi espansi fin dove la moglie non era arrivata: c’incontrammo per la prima volta in gennaio, glielo annunciai a marzo e prima di Natale gli diedi un figlio, suo figlio, figlio mio e d’un uomo che conoscevo appena, ma che mi amava perché avevo saputo frugare tra i rifiuti della sua disfatta ed estrarvi roba buona abbastanza da imbandire una tavola. Collane d’oro con le vostre tragedie: ecco cosa volevo dire, ecco cosa sapevo fare. Con la disperazione di Jacopo avevo costruito la mia vita: una casa, un figlio, un cognome, giacché non tardò ad abbandonare l’altra – l’altra era lei, adesso – per sposare me. Ci volle poco, ci volle niente: quanto vale concepire un figlio, me lo pagate in dollari, in barili di petrolio, me lo pagate, come lo pagate? Accetto solo denaro contante e non ne sono nemmeno così sicura: quanto vale, quanto siete disposti a darmi? Perché adesso che ci sono riuscita, adesso che dall’ennesimo male altrui ho avuto tutto, adesso quel tutto non m’interessa più. Quindi ho due possibilità, ora che ho trent’anni e un figlio, un marito, un cognome e un indirizzo, ora, quella che vedete – quella che si consegnò alla polizia infilandosi nelle crepe d’un attentato terroristico –, può scegliere se cercare un’altra tragedia da saccheggiare, aggiungendo una collana d’oro alla collezione che non lascerà in eredità a suo figlio – oh, no, figlio mio, tu non sei come me, quest’oro non te lo meriti! Può scegliere, dicevo, ha due possibilità: cercare un’altra tragedia e ricominciare daccapo, oppure farsi tragedia da offrire, eredità trasmessa in vita a chi sa approfittarne, a chi sa goderne.
Aggreditemi, occupatemi, mettetemi le mani in tasca, non mi salvate. Dai vostri fallimenti – disperazioni, malattie, drammi, perdite – ho preso tutto. Adesso, è tempo che vi offra il mio, di fallimento. La tragedia di chi ha voluto, ha avuto e ha scoperto di non averlo desiderato: prendetela. È vostra. Vi spetta di diritto.