Burro e marmellata

Casa di mia nonna è diventata un negozio d’armi. Quando ci sono passata davanti, l’altra mattina – erano quindici anni che non tornavo, quindici anni di vita e di oblio –, quando ci sono passata davanti ho pensato fosse una bottega di articoli per parrucchieri, un commercio all’ingrosso – cosmetici, prodotti per lavare i pavimenti, detersivi industriali – perché in vetrina ho visto decine di flaconi e poi una donna, la sagoma di una donna di cartone. Ho pensato ecco, hanno estratto il dente malato e hanno impiantato il nuovo, ma attaccata al perno di titanio non c’è la corona, c’è una regina tutta intera, c’è una dinastia, re, principi, duchi e marchesi, tutti eredi al trono, tutti destinati a regnare su di noi. A dominarci. A tutti loro mia nonna non avrebbe esitato a tagliare la testa, come faceva con le galline, coi tacchini, vieni qua, bella mia, vieni, e dalla tasca estraeva la lama traditrice, vieni, amore mio. Un movimento circolare del polso e via, via la testa, vieni, e rideva, vieni qui, e decapitava un piccione, son buoni i piccioni, sai quanti ne hai mangiati, da piccola, con le patate e col burro, sai quanti, pensando fosse pollo? Dai, non fare quella faccia, vieni, ti preparo la merenda, e con la stessa lama che prima aveva sgozzato mi spalmava il burro sul pane, burro e marmellata di ciliegie. Burro e marmellata per me soltanto, che avevo cinque, otto, dodici anni. Burro e marmellata di ciliegie: attenta ai noccioli, piccola mia, non vorrai mica spaccarti i denti tutti nuovi che hai?

Mentre guidavo, casa di mia nonna ormai alle spalle dell’auto, un punto nello sporco del retrovisore, sfiorai con la lingua l’attaccatura del dente finto. Era un premolare; alla fine, me l’ero spaccato davvero, il burro e la marmellata mi avevano tradita, ma mia nonna no, la trappola me l’aveva tesa avendomi avvertita, e io m’ero fatta prendere lo stesso. Mia nonna: chissà che faccia aveva, quand’era morta; chissà dove viveva. Era per il suo funerale ch’ero tornata e lei non s’era fatta trovare, casa sua buttata giù da un colpo d’arma da fuoco. La cerimonia era già iniziata quando arrivai e un uomo vestito di nero stava parlando di lei chiamandola per nome, come se la vecchia potesse mettersi a sedere nella cassa da morto e dire sì, sono qua, che avete da invocarmi sempre?, e poi non sapete che il mio nome intero non mi piace? Il suo nome intero che pure io avevo ereditato senza sconti, Agrippina Domezia, e mia cugina pure, come me, stessa malasorte e un altro destino; lei quel giorno non c’era, e mia madre neppure, e mio padre, mia sorella, nessuno. C’era qualche zia, gente che non conoscevo e che cantava insieme ai membri della Congregazione; restai in disparte, in fondo alla sala. Tra quegli estranei non esistevo, eppure ero sicura che, a guardarli bene in faccia, avrei ricordato i loro nomi, le famiglie, l’irraccontabile che noi spacciavamo sottobanco, rincaro d’interessi maturato alle loro spalle, deflazione delle vite private altrui che fa la ricchezza nel confronto, gara tra poveri: vince chi perde di meno. Non salutai, non m’immischiai, non volevo sapere più chi fossero, anche se in mezzo a quella folla ero cresciuta, proprio perché in quelle menzogne ero venuta su e avevo imparato a stare al mondo, insieme a mio padre, a mia madre, insieme a mia nonna, che mi dava da mangiare piccioni al forno, spacciandoli per pollo. E chissà se l’aveva mai fatto davvero, perché quando ne parlava rideva, ti piace il pollo, eh, ti piace la pelle croccante di piccione. Maledetta nonna che hai sempre mentito, ti piace la pelle bruciata, diceva, e rovesciava la testa indietro, le lacrime che, come l’urina, non sapeva trattenere più. Ma era vero: mi piaceva la pelle bruciata e, dopotutto, quella sarebbe stata la fine di mia nonna – hai visto, nonna, come t’è passata la voglia di scherzare? Quel pomeriggio, il suo corpo sarebbe stato cremato. Via, nel forno, come il pollo, come un piccione sventurato. Via, tutto finito: mangiate in pace.

Fu quel giorno che iniziai a dubitare. Accadde dopo la funzione funebre: me ne andai senza essermi fatta vedere e cominciai a sospettare, come una monaca di clausura che dopo i vespri rinnega la fede ed è disposta a giocarsela come un anello d’oro, pur di ottenere qualcosa da toccare in cambio, ed è pronta a sconfessarsi pur di avere una risposta, una mano cui aggrapparsi invece del silenzio che ha sempre fatto eco al suo “Eccomi”. Eccomi a chi? chi t’accoglie? chi t’ha amata? La voce che hai sentito te la sei sognata, bella mia, t’hanno preso in giro, come mia nonna con me, pollo e invece era piccione, “amore mio sussurrato” alle galline e la lama pronta a finirle stretta tra le dita che le accarezzavano. Fu quel giorno che iniziai a dubitare: era esistita mia nonna, sicuri? Mentre guidavo verso casa mia, ripassai davanti al negozio d’armi: davvero aveva abitato lì? Non è che avevo sbagliato indirizzo?, via Dante e invece era via Petrarca, o era via Manzoni? Esiste una via Manzoni, era esistita mia nonna, mia madre, mio padre, che mi dite di mio padre? Esistevo io? E la mia vita senza pieghe, come un letto d’albergo, la mia vita di adesso, era reale? Per la prima volta, in tanti anni, dubitai del mio nome, della mia esistenza, rampollo d’una famiglia d’inganni, portatrice del gene della menzogna. Vivere lontana non m’aveva salvata: il funerale di mia nonna aveva riattivato il veleno. Il contatto col passato m’aveva tolto quell’ultima illusione d’interezza.

Non ho mai saputo chi fosse mia madre, non per dimenticanza, né per un’estrema forma di pudore dei miei, anzi. Avevan lavorato bene, me l’avevano insegnato come un atto di dolore sin da quando avevo iniziato a rivendicare un potere sulla mia stessa voce: me l’avevano detto, chi era, impara a memoria, recita, avanti, e io attaccavo, verso dopo verso spiegavo chi era mia madre. E loro: brava, sei stata brava, la memoria costruiva la certezza, la ripetizione cesellava la realtà. Non ho mai saputo chi fosse mia madre, ma non m’è mai tremata la voce in bocca: casalinga, confermavo e mentivo, quando gl’insegnanti volevano sapere la professione dei miei genitori, il primo giorno di scuola. Casalinga, bene; e tuo padre? E mio padre fa il professore di greco, sì, greco antico, e mi meravigliavo che non lo sapessero, tutti conoscevano il professor Delogu, l’Iliade che declamava a tavola al posto delle preghiere. Marco Delogu, cui un giorno avrebbero intitolato il liceo del paese: mio padre era. Solo che poi faceva pure l’usuraio, che male c’è, che fa un usuraio?, e non lo sapevo, nessuno lo sapeva davvero e tutti ne parlavano, ma non con me, mai con me. Sulla porta della toilette delle ragazze, però, c’era scritto chiaro e tondo, con grafia da femmina “Delogu cravattaro”. E poi, sotto: “Delogu usuraio”. Usuraio, che vorrà mai dire? Usurato era il manico della cartella di mia zia Grazia, che avevo ereditato io; usurato era il cappotto che mia madre non voleva cambiarmi, che non voleva sostituire con quello che avevo visto nelle pagine del Postalmarket. – Ritaglialo -, mi sfidava, – Ritaglialo e sarà tuo -, ed era seria, non scherzava e non mentiva, – Avanti, che aspetti -, e avevo quattordici, quindici, avevo sedici anni, puoi ingannare una donna di sedici anni? Puoi prenderti gioco della tua bambina? Oh, sì che puoi, se nessuno sa chi sei, non ho mai saputo chi fosse mia madre – chi eri, mamma? –, ma su di lei una certezza l’avevo: rubava. Lo avevo appreso dalle pareti sottilissime dei bagni della scuola – maledetto corpo che ti obbliga alla verità, maledetto eccesso di sincerità del gabinetto –, lo avevo appreso dalle labbra di suor Lucia, negli anni in cui ancora andavo a scuola dalle suore, negli anni prima che mia madre entrasse nella Congregazione. Rubava, dicevano, ma quando, ma come? Avevo provato a figurarmela – ladra, la denunciavano, ladra –, e l’avevo vista con la calzamaglia in faccia e le mani guantate di nero, ladra, e come stava bene nelle case degli altri, mia madre come un’attrice del cinema, di notte usciva e andava a rubare. Solo che lei, invero, di notte dormiva, la parrucca sul comodino, la miseria d’una testa sguarnita da nascondere: – Quand’ero piccola, i capelli han preso fuoco e non sono cresciuti più -, si giustificava. Voleva essere compatita, ma chi avrebbe avuto compassione per una ladra? Io, io la compativo, la commiseravo, da lei ero nata e le dovevo un’affezione assimilata e imposta come una lingua madre: non puoi far niente per rifiutarla, niente per disimparare il suono “mamma”, la sua pronuncia. Puoi odiarla, ma sarà la prima persona capace di consolarti con la sua sola presenza. Ti starà abbandonando e tu, sempre, “mamma”, tragedia dell’abitudine, conato d’amore per chi t’ha condannato a vivere. Compativo la ladra ch’era mia madre e non sapevo immaginare quando rubasse, come se le procurasse quelle borse belle come cani di razza, quei gioielli ch’erano opere di alta pasticceria, da guardare finché non irrancidivano, finché non diventavano impossibili da mangiare, come da progetto originario. Che sciupio è la bellezza; che spreco è la contemplazione. Per anni ho guardato mia madre, mio padre, senza sapere chi fossero. Per anni ho avuto fede – fede, non fiducia: il divino che s’impone sul profano –, fede in mia nonna, eccola la divinità domestica, santo nume del tinello. Religiosamente, ho mangiato i suoi inganni, a occhi chiusi ho addentato il burro e la marmellata di ciliegie spalmati sul pane, e dio m’ha punita: ci ho creduto troppo. L’adorazione corriva è peccato, il dente rotto ne è un doloroso promemoria.

Fu quel giorno, sì, quel giorno che iniziai a dubitare. Tornando a casa dal funerale – era di mia nonna il corpo nella cassa, sicuri? –, niente fu più certo e ogni cosa, il passato, ma soprattutto il presente che avevo voluto, il matrimonio, mia figlia Adele – perché l’avevo chiamata così, poi? – la mia casa senza pieghe, la marmellata di fragole che spalmavo sul burro, senza paura che un nocciolo potesse tradirmi, ogni cosa mi si rivelò per ciò che era, un inganno. Un prodigioso inganno da niente, guarda l’asso di cuori nella mano destra e un attimo dopo eccotelo nella tasca sinistra. Una sciocca catena di menzogne, di piccole bugie tutte legate tra loro, annodate strette come una treccia. Impossibile riportarle com’erano prima; impossibile tornare indietro. Impossibile anche per me rientrare nel mio appartamento, salutare Antonio, sì, tutto bene, impossibile abbracciare mia figlia e non notare l’impostura – essere mia madre e tenere la lama in tasca come mia nonna. Inaccettabile l’idea di stare a guardare la superficie liscia della mia esistenza senza dover reprimere l’istinto di sgualcirla, la fame vandalica di chi s’avventa su un muro appena ridipinto di bianco. Non mi fidavo più, la mia vita, da quella sera, divenne un dubbio, inautentica scorciatoia che avevo imboccato anni prima, in fuga da quella mia famiglia travestita, mascherata, finta. Fu quel giorno che iniziai a dubitare, e quello stesso giorno, ormai senza nomi – chi ero davvero? –, iniziai a distruggere. Non ci volle molto: prima della fine dell’anno mio marito m’era diventato estraneo e così mia figlia, così casa mia, le tende che non avevo scelto, il mobile del bagno nuovo già scheggiato dopo una settimana, così il quartiere dove ero andata a vivere, e la città. Tutto era un inganno: la mia vita ordinaria lo era. L’autenticità di ciò che avevo costruito era il nocciolo nascosto nella confettura di rubino. La verità che avevo coltivato era l’insidia spalmata voluttuosamente sul pane: se lo mordi, poi scordati di sorridere. Se lo mangi, puoi restare con la bocca vuota. Come quella di mia nonna, la sera, quando sputava le arcate nel bicchiere prima d’andare a dormire.

È passato un anno da allora e non sono più tornata a vedere il negozio d’armi: ho paura che mia nonna sia nascosta dentro la vetrina, ho paura che mi chiami, assottigliando la voce dietro la sagoma della donna di cartone. – Vieni, bella mia, vieni qua -, ho paura che m’inviti, pane e marmellata in una mano, e nell’altra? Nell’altra un coltello, una rivoltella già carica, hai visto come pesa? È il peso della vita, bella mia, è il peso della fortuna: è tutto nelle mie mani. Non ho più visto nemmeno mia madre, né mio padre. Dopo il funerale, avevo pensato di cercarli, di ricongiungermi a loro, filo spezzato e annodato, ma anche questo sarebbe stato un inganno. No, sto mentendo. Non ho mai pensato davvero di riattaccarmi alla mia famiglia come un dente posticcio – visto come mi ossessionano i denti? Visto come mi tormenta la perdita? Il buco, il vuoto, il tradimento? Mai ci ho pensato davvero: volevo star sola, lontana dall’inganno, dalle menzogne subite e da quelle inflitte, che poi altro non erano che gli aghi piantati da mia nonna – da mia madre, da mio padre: da tutti – nella mia carne di bambina e da me stessa estratti dalla mia carne d’adulta, per poi riconficcarli nel fianco tenero del mio matrimonio, di Adele. Adele, perché t’ho chiamata così? alla fine, perché mi sono ostinata a darti il nome di mia madre?

È passato un anno da allora e la verità è che ho mentito quando ho dichiarato di non avere più visto nessuno: mia madre l’ho vista, ma non è più lei. Mi ha guardata e s’è messa a piangere, – Vattene! -, ha urlato, – Vattene: la dottoressa è già venuta stamattina, va’ via -, ho provato a riportarla a me, – Mamma -, le ho detto, e lei era furiosa, – Sì, mamma: chiamala, tua madre, non ho paura -, e l’ho lasciata. Cosa dici a una madre che disconosce una figlia? Cosa rispondi a una donna che s’è scordata d’esser donna? Anche mio padre s’è scordato d’essere Marco Delogu e di sicuro può scordarsi pure che gl’intitolino il liceo del paese. Marco Delogu non esiste più, nessuno teme più i suoi numeri – voti o tassi d’interesse –, nessuno teme più il suo greco antico, perché l’Iliade adesso la recita in galera, – Venite, che avete fatto? Frode, stupro, omicidio? Venite, vi racconto una storia -, e declama un poema che nella sua bocca è una lunga preghiera riaccomodata a bestemmia. È passato un anno e ho capito adesso che mia nonna s’è portata via tutto quanto il giorno del suo funerale, mia nonna ha caricato il carro funebre ed è sparita, s’è ingoiata la mia vita e quelle degli altri senza masticarle – non ha i denti, ricordi?. Niente m’è rimasto, solo l’inganno che ho subito e fatto mio: è questa la mia eredità. Eccolo il patrimonio.

Stamattina, ho guidato verso il paese. Ho inserito nel navigatore l’indirizzo di mia nonna e mi sono lasciata portare. Mi sono fermata sotto il portone, davanti al negozio d’armi: seduta sul bordo del marciapiedi c’era suor Lucia. Suor Lucia ch’era sparita da anni – galera, morte, usura: tutto era possibile –, suor Lucia che aveva condannato mia madre e poi aveva dovuto scontare la pena. Sono scesa dall’auto e mi sono chinata su di lei, su quella testa che sapeva di bucato e di sudore; le ho chiesto cosa ci facesse là, le ho chiesto se avesse caldo, se stesse bene. – Sto cercando una soluzione -, m’ha risposto, e l’ho vista, non mentiva: per una volta, almeno lei, diceva il vero. – Anch’io -, le ho detto, – Anch’io -. Poi ho guardato l’armeria, – Forse qui dentro sanno dirci dove sono finiti tutti. Dov’è finita la vita che credevamo d’aver vissuto e che, invece, ognuno per sé, abbiamo già perduto -.