Mentire

Non le ho mai detto niente. Doveva essere un segreto, lo è rimasto, non l’ho tradita, come avrei potuto? O, meglio: ho mentito, ma l’ho fatto a fin di bene. Mentire è una medicina, mentire aggiusta, all’inizio è una finzione, all’inizio è tutta una maschera, come quando hai la febbre e ti prendi la tachipirina e quella scende, ti fa sudare, ti svuota la testa, ti sposta il peso davanti, sugli occhi, poi giù per la schiena. Allora devi cambiarti il pigiama, le lenzuola sono gelide come quegli anni in cui le bagnavi d’urina, – Devi alzarti, non devi farla a letto -, ma tu che ne sai, come fai a sapere cosa devi fare se stai dormendo, come fai a obbedire con gli occhi chiusi. – A letto la fanno i bambini -, e tu hai otto anni, dieci, dodici; hai sette anni, la soglia dell’età adulta l’hai varcata da un pezzo.

Non le ho mai detto niente, non l’ho mai tradita. Le ho mentito come una madre che ti porge il paracetamolo, dopo starai meglio, vedrai che sarai guarita, e non è vero, è sollievo temporaneo, la febbre tornerà, perché non l’hai curata davvero: l’hai soffocata, le hai ordinato zitta, sta’ zitta, e quella per un po’ ha obbedito, ma non se n’è mica andata. Così ho fatto: ho mentito, ho taciuto. La verità l’ho tenuta per me, mentre a lei ho dato silenzio – l’antipiretico che ammutolisce –, a lei ho dato quello che mi chiedeva, a lei ho dato finzione. Che vuoi che ti dica, mamma? Ecco, prendi pure. – Com’è andata con tuo padre? -, e io ti rispondevo bene, male, come vuoi che vada? Con mio padre le cose non cambiano mai, mamma, dopotutto è per questo che vi siete lasciati: vedi, ti sono fedele. Come tu sei stata con lui, come lui non è stato con te. Mentivo; ogni tanto piangevo, ero capace anche di questo: pensavo ad altro e piangevo, m’immaginavo quello che volevi e le lacrime mi venivano in aiuto da sole, nessuno sforzo: ero una vera professionista della menzogna. – Sei tutta tuo padre -, m’accusavi, e te ne volevo, mamma, quando me lo facevi notare, ma sapevo ch’era vero – occhi, ciglia, naso, denti, soprattutto denti, e poi le gambe storte, la forma dei piedi –, ti odiavo. Gli assomigliavo, ero lui, non te, di te non avevo nulla, non avevo l’azzurro degli occhi, quello te l’eri tenuto tu, quello era per il figlio maschio che poi non hai avuto, che hai avuto ma che t’è morto prima del tempo e tu l’hai visto nascere e morire, contraddizione che hai stretto tra le braccia, no, che t’hanno posato in grembo, no, che t’hanno aspirato via dal corpo senza mostrarti niente, non la faccia, non le mani ma gli occhi. Quelli, ne sei sicura – li hai visti, te li sei sognati – erano azzurri; erano gli occhi di tuo figlio, erano gli occhi di mio fratello: quelli che a me non hai dato. Perché io ero tutta mio padre; così son venuta: uguale a lui, traditrice. Eppure non lo sapevi, non sapevi che mentivo, e non sapevi nemmeno perché te ne volevo, quando mi dicevi che gli assomigliavo; io non volevo. Non come lui volevo essere, e nemmeno come te, grossa di petto e bionda di capelli. Perciò non ti ho mai detto niente, perciò a mia madre ho nascosto la verità: volevo essere come loro. Loro, quelle che incontravo ogni volta; si chiamavano Angela, Luciana, si chiamavano Maria, Caterina, poi Alina, chi se la scorda Alina, il rossetto viola se lo metteva solo lei, precisa come un macellaio, sicura come una clarinettista della banda. E poi Carmen, Carmen è stata la mia preferita: a un certo punto era incinta, me l’ha detto lei: mi ha presa da parte, sul balcone, mi ha afferrato la mano e se l’è premuta in grembo. La pancia abbronzata e nuda, piatta come la mia non è mai stata, l’elastico delle mutande che fuoriusciva dai jeans. – Qua dentro c’è tua sorella -, e stava mangiando un gelato, fiordilatte ricoperto di cioccolato, il nome del discount stampato sullo stecco, e non ho pensato a un figlio, ma a del cibo, cioccolato frantumato dai suoi denti, granella di nocciola e ripieno all’amarena. Poi Patrizia, poi Silvia, Silvia che aveva già due figli e che s’era candidata al consiglio comunale, Sara che mi regalava campioncini di profumo che puzzavano di donna, così si lamentava mia madre quando me li scopriva. – Puzzi di donna, puzzi di femmina -, e davo la colpa a Cristina, la mia compagna di banco, – Me li regala lei, la sorella lavora alla Rinascente -, e quel punto mia madre si rischiarava, conoscevo qualcuno che ce l’aveva fatta, conoscevo qualcuno che se n’era andato, che parlava con un altro accento, che non doveva sperare più, che non doveva pregare un dio in cui non credeva, perché aveva ottenuto tutto, perché aveva vinto.

Non le ho mai detto niente, doveva essere un segreto e lo è rimasto: volevo essere come loro. Non a mia madre volevo assomigliare, non a mio padre, da cui invece avevo preso i difetti, ero tutta un difetto. Volevo assomigliare alle donne che lui si portava in macchina e in casa, volevo assomigliare a quelle ragazze che cambiavano nome ogni due, ogni tre, ogni sei mesi, volevo quelle mamme bambine e allo stesso tempo volevo essere loro. Spregiudicata, abile davanti allo specchio e alla cassa d’un supermercato, volevo il rossetto di Alina e la pancia vuota di Carmen, che non era incinta, che incinta non lo sarebbe stata mai: di figli non poteva averne. Me l’ha detto lei, l’ho incontrata qualche anno fa e non l’avevo riconosciuta, ma lei sì, lei m’è venuta dietro e m’ha chiamata, – Anna, Anna -, e mi sono vergognata del suo tono di voce indiscreto, dell’accento che non ricordavo, mi sono vergognata della pancia nuda alla fine di febbraio, o forse sto mentendo anche adesso, forse ero invidiosa. M’ha raccontato di sé, che non poteva avere bambini e io lo sapevo, lo sapevo da tempo, tutti lo sapevano; – Per un periodo ho pensato che potessi chiamarmi mamma -, s’è fatta sfuggire, e io ho riso, che dovevo fare?

Non ho mai detto niente a mia madre; me lo avrebbe rinfacciato subito, sei tutta tuo padre, sei come lui, guarda come gli assomigli! Mi ha lasciata e mi ha lasciato te, che ogni giorno mi ricordi la mia sorte. Così diceva, così mi accusava. Non le ho mai detto niente, mai; nemmeno adesso che ho scoperto che è stata lei a mentire, che è stata lei, per tutti questi anni, a cacciarmi in bocca la tachipirina per far scendere la febbre, anche se il medico non voleva perché era solo una febbretta, uno di quei mali che non hanno definizione e che ti si annidano dentro come le formiche, innocui e distruttivi, che ti svuotano dall’interno e alla fine ti afflosci al suolo, resta solo l’involucro. Diventi serpente, sei la sua pelle disertata. Per anni, ho mentito a mia madre: l’ho fatto per lei; tuttavia, anche lei m’ha mentito. – Sei tutta tuo padre -, e non era vero: mio padre non era quello che mi veniva a prendere tutti i giovedì da scuola, e che mi restituiva il sabato mattina. Gli assomigliavo, ma pure quella era una menzogna, un caso, un’invenzione: non ero figlia sua. Mio padre era un altro, uno che mia madre non ha mai sposato, uno che ho incontrato decine di volte. Uno che lei ha continuato a vedere tutti i giorni, senza dirgli niente, senza dirmi niente. La menzogna è vizio di famiglia; l’omissione è gene materno.

L’ho saputo a sedici anni; me l’ha detto lui. Lui, mio padre, quello posticcio, controfigura d’un genitore che m’ha tramandato il cognome soltanto, eredità fatta di parole stampate sui documenti, patrimonio inscritto nei primi suoni che m’hanno definita. Non mamma ho detto per prima, non la mancanza di lei ho espresso, quando ho incominciato a parlare: quando è accaduto, ho detto io, ho detto Maria, il mio nome, Maria Busi, Mariabusi, tutt’insieme, io e mio padre attaccati, io e mio padre – io e la menzogna – fusi nel mio debutto. Ho avuto voce e ho chiamato il nome di mio padre, che era il mio; ho preso in mano un potere e subito ho incoronato un monarca inesistente, gli ho detto padre e non lo era: il suo lascito da vivente è stato un bene virtuale, immaginario, falso. Una menzogna, dicevo, ma non per sua volontà; quando m’ha avuta, nemmeno lui sapeva. Quando l’ha appreso, era appena passato dalla parte del torto: aveva tradito mia madre, la traditrice originale che m’aveva avuta con un altro ma mi aveva ficcata a forza nello stato di famiglia dell’uomo che l’aveva sposata. Il giorno in cui mi ha messo in mano la verità, il giorno in cui mio padre m’ha detto che il mio nome era una bugia, avevo appena compiuto sedici anni, e lui era stato appena abbandonato da Annarosa. Non avevamo fatto festa, della torta s’era scordato, di sua figlia pure – sua figlia quale? Una figlia non l’aveva –; quel venti di marzo ci fu solo disamore, ci fu solo disillusione, la Twingo rossa che non partiva e la mia riluttanza a tornare a casa. Litigammo, lui seduto al volante e io sul sedile posteriore che piangevo, il posto accanto al suo rimasto vuoto per colpa d’una donna e mia madre lasciata sola per dispetto. Avevo scelto di stare con lui e lui s’era scordato di me, così piansi, così glielo rinfacciai, un padre non dimentica, gli dissi, un’Annarosa non conta, conta Maria, conta mariabusi, questo soltanto. Allora lui pianse più forte, mi diede ragione, un padre non dimentica, un’Annarosa non conta: conta una figlia, una figlia vera, un cognome che porgi come un regalo, come un caffè, un cognome che nessuno ti strappa come una borsetta, come il foglio di calendario del mese passato. Così conobbi la verità, così diventai adulta: a sedici anni, gli occhi chiusi in un’auto che poi avremmo dato via, un padre che non ti guarda ma piange come un figlio, come un estraneo, come quello che non t’è più.

Per molto tempo, ho continuato a mentire; ve l’ho detto, di mia madre son figlia davvero, quel talento me l’ha trasmesso lei – quello ma non gli occhi azzurri, quello e nient’altro. A lungo ho ripetuto a memoria ogni battuta del copione, il suggeritore non lo guardavo più: ero diventata brava, al punto da confondermi, sto mentendo oppure è tutto vero? ho inventato o questa è la realtà? Che vuol dire realtà? che vuol dire avere un padre? Una madre? Per molto tempo, mia madre è stata innocente; poi ho smesso. L’ho fatto da poco: mi ci sono voluti decenni di esercizio e di pazienza, prima di riuscirci.

Adesso la vado a trovare la domenica; mi vede arrivare e non sempre sorride, qualche volta mi manda via, qualche altra volta mi porge la mano e gliela stringo, – Piacere di conoscerla -, mi dice, – Non sono ancora pronta per l’intervista, mi cogliete sempre di sorpresa -, e nella sua testa ha ancora vent’anni, l’età in cui m’ha avuta e ballava, l’età in cui è uscita dal teatro e non vi ha più messo piede – da protagonista a niente, da danzatrice a donna che rincorre il tram con una figlia che le sforma il grembo. L’altro giorno mi ha vista e mi ha chiamata per nome, ma non ero io, era Lucia, una Lucia che non conosco, che ho tuttavia accettato d’essere. Abbiamo parlato, l’ho ascoltata, poi le ho detto di mio padre; – So tutto -, ho ammesso, – So che non sono figlia sua, so che eri l’amante di Attanasio, del dottore -, e lei ha riso, – Attanasio! -, s’è coperta la bocca con la mano, – Oh, lui! Aveva un’auto bellissima. Passa a trovarmi tutti i giorni, lo vedi? -, s’avvicina alla finestra. – Eccolo, è lui -, e saluta una donna che passa in bicicletta, una sconosciuta ch’è troppo lontana, che di noi non s’accorge e che non dirà nulla a nessuno. Il segreto è salvo: avremo mentito fino alla fine.