L’appuntamento

Mi dice che è già arrivata, che mi aspetta. Mi dice di fare con calma, non la riconosco: prima ero sempre in ritardo, prima era sempre ora, era tardi, l’autobus sarebbe passato e sarei rimasta a terra, una giornata buttata, un’altra giornata d’una vita che stavo sprecando. Non avevo mai saputo che farne della vita, dei soldi, dei capelli delle Barbie, che pettinavo con la spazzola tonda, quella per la messa in piega, la spazzola che avevo rubato dal salone di Franca, un primo piano convertito in centro di bellezza abusivo per le signore del quartiere. Per le signore e per Duchessa, l’unico uomo, biondo naturale e un paio di jeans che non nascondevano l’evidenza. – Ti aspetto qui -, dice, e non sento la sua voce, la leggo soltanto: mi scrive sul cellulare, le sue parole camminano sullo schermo lente, m’invadono la mattinata, m’invadono la vista. – Ti aspetto -; provo a immaginarla e non ci riesco. Provo a visualizzarla e non me la ricordo. Ho sciupato persino la memoria: come le giornate, come i soldi della cresima, come i capelli delle Barbie: pettinarli li rovinava. I boccoli aperti dalle setole erano sfregi irreversibili, erano ferite impossibili da ricucire. Erano scritte sui muri con la vernice. Nessuno le cancellerà più.

Mia madre è ferma all’angolo della strada. Le ho dato appuntamento in un bar, ma lei mi aspetta fuori: senza di me – senza qualcuno – non osa entrare, la solitudine di una donna seduta le sembra tuttora fastidiosa, fuori luogo. Asseconda un vecchio istinto, la rincorrono immagini del suo Paese – femmine in piedi al bancone, un Martini davanti e il rossetto sul bicchiere, femmine sedute a tavola, l’oro dei denti che brilla come una fede nuziale, mentre ridono, il digestivo versato nella tazza ancora sporca di caffè d’orzo. Vado verso di lei, accelero – ci separano pochi metri ma lei guarda in direzione opposta a quella da dove arrivo –, sto per attraversare, mi fermo, voglio rinunciare, tornare indietro, chiudermi in casa. Spegnere il telefono, non risponderle: mi chiamerà e io non farò niente, insisterà e allora uscirò, lascerò il cellulare in cucina. Troverò due, cinque, tredici tentativi di raggiungere la mia voce, li cancellerò dal registro, bloccherò il numero. Poi, da un telefono pubblico – da quello dell’ufficio di mio marito, da una cabina telefonica, da un albergo – la cercherò. Conosco ancora a memoria la successione di cifre che mi mette in contatto con lei, con quel che resta, digiterò con calma e aspetterò, l’ascolterò rispondere – tono interrogativo –, l’ascolterò dubitare, ripetere: pronto? Pronto, pronto?, non dirò niente. Aspetterò ancora, – Ma chi è? -, finché non pronuncerà il mio nome, finché non saprà – sapeva dall’inizio. Sono io, mamma, ero io, sarò io. Sono stata io per tutti questi anni e tu non hai mai sospettato che ci fosse qualcun altro, dall’altra parte del filo; mai, nemmeno una volta. Eppure non hai fatto niente per tornare indietro, non hai mai cercato di tornare, di richiamare, non mi sei venuta a prendere, a vedere, chissà com’è diventata, chissà se la riconosco. Io sì. In tutti questi anni, io ti ho inseguita. Ho scoperto l’indirizzo di casa tua, ho preso un treno, un autobus, ho chiesto alla gente e t’ho trovata; il tuo nome era scritto sul citofono, il tuo e quello di un altro. Ho premuto il tasto, ho aspettato e me ne sono andata. Sono venuta anche nella ferramenta dove lavoravi, t’ho cercata da dietro il vetro, ma non sono entrata: ho spiato, mi sembravi tu, allora ho chiesto a una donna che usciva, le ho fatto il tuo nome, le ho domandato se lavorassi lì e lei non lo sapeva, a chi interessa il nome di una commessa, a chi? Un uomo m’ha risposto, – Elisa, sì: lavora lì dentro, è la moglie di Leone -. Leone, l’uomo che hai seguito, che non t’è stato mai marito ma t’è diventato famiglia, più di mio padre, più di tuo marito, più di me. Più di Bruna, il cane che avevi voluto così tanto da non parlare più col babbo per una settimana, la parola in cambio di una bestia. Quell’uomo estraneo ha contato per te più di Bruna, te ne rendi conto?, Bruna che pensavi fosse maschio e invece era femmina, l’avevi chiamata Bruno e ci è toccato ribattezzarla. Nemmeno lei ha saputo trattenerti: ce l’avevamo da pochi giorni quando te ne sei andata, senza portarti nulla. Hai deciso e così è stato; la tua roba l’abbiamo data via. Non ci serviva: avevamo bisogno di spazio, la tua assenza non bastava, il tuo posto vacante aveva risvegliato in noi la necessità d’un vuoto più grande. Come quando apri una finestra in un muro e poi vuoi abbattere il muro intero; la luce non è mai abbastanza. L’eccesso di spazio lasciato da una madre che se ne va è impossibile da misurare, allora rendilo infinito, incommensurabile, sottrailo alle leggi del calcolo.

Così vorrei fare oggi. Come quelle volte: vederti da lontano, ma non troppo lontano – la possibilità di toccarti, la scelta di non farlo –, assicurarmi della tua presenza e poi sparire. Vorrei deluderti, vorrei offenderti, ti vorrei indietro e allo stesso tempo mi sembra impossibile. Da dove sono adesso, potresti accorgerti di me; mi piego sulle ginocchia, schiena al muro; potrei essere una passante che si sente male, che sta per svenire, le si sono rotte le acque: guardala, partorisce in strada, guarda la vita, guarda la morte, guarda il bambino. Non esiste, è tutto spettacolo. Prendo il telefono dalla borsa, faccio per scriverti, ma mi hai preceduta: – Forse entro nel bar -, dici; poi, più sotto: – Fa freddo -, e all’improvviso mi sento colpevole, responsabile, mi sento madre e tu sei mia figlia, ma non è così. È che ti rivedo dopo ventott’anni, sai quanto tempo è ventott’anni? Sai quanto sono lunghi?

A dirla tutta, nemmeno adesso mi sei venuta a cercare. Diciamo la verità, mamma, dilla tu; anzi, no: lasciami parlare. Faccio io. Ti vengo incontro e sei ancora fuori, indossi una giacca troppo grande, troppo leggera, i piedi nudi nelle scarpe, il cellulare in mano; – Andiamo dentro -, ti dico, e ignoro il buco nel tuo sorriso, ignoro le rughe sulle guance, i capelli corti che prima erano lunghi, – Forse c’è un tavolo libero -, e il caffè è vuoto, ci siamo solo noi due. Mi è passata la voglia di parlare, ho già rinunciato; ti ascolto per più di un’ora: hai molto da dire, tutte storie di poco conto – ti ricordi dei Giuliani?, e di Angela Greco? Ha avuto due figlie. E Duchessa, ti ricordi di Duchessa? S’è sposato, finalmente: ha sposato una donna –, mentre io non ho niente, mentre io ho già dimenticato tutto. Mi hai portato dei soldi, una banconota infilata in un sacchettino che prima conteneva lavanda essiccata, – Questo è un regalo -, e io rifiuto, non voglio, mi sento allo stesso tempo offesa e amata, mi sento figlia ed estranea – soldi, lo stesso regalo che si fa ai figli degli altri quando t’invitano alle comunioni, ai battesimi, ai matrimoni, e tu ci vai perché non sai dire di no, e il denaro lo metti da parte settimana dopo settimana, sottraendolo alla paga che ti consegnano ancora a mano. Estranea e tua, – Puoi comprarti quel che vuoi -, ma io non voglio, io volevo detestarti e non me ne stai dando la possibilità, io volevo dirti tutto, parlare io soltanto, ma ho dimenticato, ho l’amnesia di una vecchia, quella che tu forse avrai tra qualche anno, quella che ci salverà, che c’impedirà di odiarci fino alla morte. T’accompagno alla fermata dell’autobus – non mi chiedi dov’è casa mia, lo sai ma non chiedi niente, non vuoi niente –, aspetto che tu sia partita per telefonarti, per spiegarti che non t’ho perdonata, ma non lo faccio, entro in un supermercato, riempio il carrello di quel che manca, poi ci rinuncio, esco, scrivo un messaggio a mio marito: – Stasera, porta due pizze -.

Sono passati ventotto giorni da allora e non abbiamo più parlato; – Adesso non facciamo passare altri ventott’anni -, m’hai detto, prima di salire sull’autobus, e in quel momento avrei voluto piangere di collera e di nostalgia. Sarebbe stata l’occasione buona per farti scendere, per spiegarti che mi dispiaceva per quell’uomo che aveva smesso di viverti accanto, che lo detestavo e detestavo te ma in qualche modo ti capivo, provavo a mettermi al tuo posto e sentivo la tua disperazione. Avrei potuto anche raccontarti di mio padre, che se n’è andato mentre guardava la TV, avrei potuto mostrarti le foto del mio matrimonio, consolarti: la tua assenza non s’era vista per niente perché era consolidata, come quando ti cade un dente da giovane e gli altri si accomodano nel vuoto, mascherano il buco, e in bocca ti resta solo un vago senso di perdita. Così è stato; forse ti avrebbe fatto piacere saperlo. Invece ho taciuto, da quel giorno in poi per quattro settimane; l’ho fatto perché avevo un dubbio, un dubbio che m’è sorto mentre ti venivo incontro, che si è imposto mentre pensavo di andarmene, mentre mi domandavo da dove iniziare a farti male. Ho aspettato a lungo prima di accertarmene, ho aspettato tutto questo tempo, e adesso ne sono sicura. Il test non mente: oggi mi ha dato la stessa risposta di ieri; non cambia idea come me. Sono incinta e l’ho saputo – l’ho indovinato – mentre mi parlavi, mentre ti restituivo i soldi avvolti nel sacchetto, mentre guardavo il tuo autobus sparire e pregavo di non vederti mai più e decidevo – stabilivo, giuravo – che quella era l’ultima volta che t’incontravo. Aspetto un figlio e quel figlio me l’ha portato la donna che tanti anni fa m’ha privata di una madre e non me l’ha più restituita.

Seduta in bagno, prendo il telefono, le cifre vengono da sole, una a una. Ventotto giorni ho resistito: ne ho sciupato di tempo, di giornate, di capelli delle Barbie. La voce la riconosco subito. – Mamma -, e ti dico tutto.