Metamorfosi

Essere un’altra era facile. Dammi tempo e sarò la principessa Diana, dammi spazio e sarò medusa, sarò pesce tropicale, sarò uccello, sarò un cigno selvatico che ti vola sul tetto e ti fa paura. Sono belli i cigni nei laghi, ti piacciono, guarda che eleganza, guarda che grazia: sembrano una sposa, sembrano una bambina nel giorno del battesimo; sono belli i cigni, visti da lontano. Prova ad avvicinarti, provaci; lancia loro del cibo, avanti: ti piacciono i cigni? Brava, amali, lodali, bestie sontuose dall’abito di seta, creature nobili, così diverse dai piccioni, dalle colombe, liberate dopo le promesse nuziali sul sagrato della chiesa, che si spaventano e scaricano l’angoscia sui vestiti lustri degl’invitati, e tutti urlano, si disperdono, maledette colombe della pace, maledetti piccioni sbiancati come un occhio malato, eravate qui per portarci bene e invece siete un problema, siete un danno, una malattia. Meschine, siete meschine, non come i cigni, parabola del riscatto, favola del successo. Sono belli i cigni, visti da lontano. Prova ad avvicinarti, t’ho detto, da’ loro da mangiare, ti sorprenderanno, vedrai, spalancheranno le ali e ti faranno urlare, ti faranno piangere, spaventosi e grotteschi, aggressivi, enormi. Non più spose ma uomini, preti in veste talare che minacciano l’inferno, che vogliono sapere i tuoi peccati, i tuoi sbagli: confessati, dimmi tutto o verrai punita. Così sono i cigni; e io posso essere loro. Posso diventare un’altra, posso farlo quando voglio. Potevo farlo; allora, ero una bambina: mi bastava immaginare, mi bastava crederci, avvolgermi nel copriletto e diventare Diana che si offre all’altare del matrimonio, cosparsa della benzina che la farà bruciare. Mi bastava volerlo e diventavo altro. Me l’aveva insegnato mia madre. Una mattina – era l’inizio di novembre e ci avevano detto di smettere di cercare da soli, perché faceva buio presto e perché a casa sarebbe stato più facile raggiungerci, nel caso in cui l’avessero trovato –, una mattina mi disse di restare, di non vestirmi per andare a scuola. – Vieni un poco con la mamma -, e sollevò un angolo della coperta, mi fece posto accanto a lei, dove prima dormiva Claudio. Claudio, mio fratello, il bambino che la polizia stava cercando ancora, l’uccello ch’era volato via dal davanzale proprio mentre mia madre gli stava cacciando i vermi in bocca. Quella mattina, quel giorno in cui mi riaddormentai nelle lenzuola che ancora puzzavano del piscio di mio fratello, mia madre iniziò a chiamarmi col suo nome. Mi svegliai per la seconda volta ch’erano le dieci e lei già m’aveva ribatezzata, e io già ero diventata un altro. – Vieni -, mi chiamò, prima di colazione, – Vieni qua -, e la seguii in bagno, mi lasciai spogliare, immergere nella vasca, – Vieni qua, figlio mio, finalmente sei tornato -, e mi lavò come faceva con lui, come faceva con quel bambino di cinque anni che ancora non parlava – pigrizia, ritardo, malattia, chi poteva saperlo? A mia madre piaceva il silenzio di mio fratello, i suoi lamenti che scambiava per canto, i suoi picchi di collera che chiamava gorgheggi, senti che voce, senti che bravo, usignolo, violino, soprano, e non lo sapeva mia madre che soprano era un registro da donna. Da femmina, e Claudio era maschio; anche io ero femmina, eppure quella mattina iniziò a rivolgersi a me come fossi stata suo figlio. Maschio, quindi. Mi strofinò la schiena con la spugna azzurra a forma di stella, – Dove sei stato, tutto questo tempo? -, e io non risposi, me ne rimasi muta come Claudio, che avrei potuto dirle? La lasciai fare e dopo mi lasciai asciugare, e profumare, e pettinare, – Figlio mio, mi sei mancato così tanto -. Ero così sorpresa, ero così felice di quella prossimità – da quando era nato Claudio io ero sparita, per mia madre avevo smesso d’esistere –, che non dissi niente quando vidi le forbici, che non me la presi quando le sentii sibilare e poi aggredirmi i capelli, e la nuca, e non piansi, nemmeno una lacrima piansi quando vidi il nero contro le piastrelle scheggiate del pavimento. Zitta, rimasi zitta. Chiusi gli occhi e mia madre scomparve, – Che paura ci hai fatto prendere -, e per lei ero Claudio, ma per me ero la Signora in Giallo, ero Sabrina la strega, ero Diana, la principessa che si schermava gli occhi dalla luce dei flash dei fotografi. Non mi abbagliate, vi prego, lasciatemi esistere.

Da quel giorno in poi, essere un’altra divenne facile, ne feci il mio potere, la mia forza, il mio talento: a voi la musica, il disegno, il calcolo. A voi la danza, a voi tutto. A me la capacità di trasformarmi, a me il dono di smettere di essere quella che ero per diventare altro, per diventare Miss Italia, la fascia di traverso e il costume da bagno nero, per diventare Taylor, che nella telenovela muore e poi risorge come Cristo, ma senza ferite, senza croce, senza infamia. A me la metamorfosi: non sono più Ida, non sono mai nata, al posto mio c’è un buco, una ferita, uno squarcio che s’apre ed è una botola: di là, vengo fuori travestita, trasfigurata, metamorfosi di sopravvivenza, muta, crisalide spaventosa che si squarcia e mi fa spazio. Sono Madama Butterfly, sono Aida, sono Sailor Moon, non ho mai smesso di esserlo: guardami bene, non mi riconoscerai. Ida è sparita, Ida se n’è tornata nel buio da dov’è arrivata, e m’immagino il sesso di mia madre, lo vedo spalancato e sinistro, mi vedo minuscola, come il criceto che mi hanno regalato quando ho compiuto dodici anni e ch’è morto di crepacuore dopo tre giorni soltanto, mi vedo inutile come il doppione di una sorpresa dell’uovo kinder che mia madre si ricaccia in pancia, s’inghiotte con un sorso d’acqua, compressa d’analgesico che farà effetto, medicina che guarisce, che mette a tacere, che anestetizza. Da quel giorno in poi, essere un’altra divenne una necessità e il mio talento si rivelò per quel che era: una fortuna, una benedizione, un dono di dio. Io ero l’eletta: sapevo trasformarmi, sapevo diventare altro per non essere quella che voleva mia madre. Perché mia madre non voleva me, oh, non mi voleva affatto: mia madre voleva Claudio, mia madre rivoleva indietro mio fratello. Mio fratello, quel bambino di cinque anni che non parlava, quell’erede al trono materno che s’esprimeva come una bestia, che guaiva come un cane affamato, che piangeva come una sirena – non creatura mitologica ma antifurto –, mio fratello era scomparso. Sparito, dissolto come un cucchiaino di nesquik nel bianco d’un bicchiere di latte, inghiottito dalla folla come un anello che cade nel fiume, mentre ti sporgi sul ponte e ti sorprendi dell’ovvia e già detta bellezza d’un tramonto. Era scomparso Claudio, e a nulla era servito chiamare la polizia, implorare, nulla avevamo trovato nello scrigno delle telecamere di sicurezza, negli occhi della gente, nelle testimonianze fasulle, per un momento di gloria, nulla. Ne avevamo vista di gente, passanti interrogati, la tabaccaia sottoposta a giudizio, al giudizio di mia madre, mio padre condannato, sei stato tu ad averlo perso di vista, no, eri tu che lo tenevi per mano, sei stato tu a volerlo mettere al mondo, sei stato tu a iniettarmi in corpo il seme, la larva, la creatura votata alla sparizione. È colpa tua, no, tua, no di Ida: se non ci fosse stata lei, Claudio sarebbe stato il primogenito e il primogenito non sarebbe scomparso. Se non ci fosse stata lei, Claudio non ci sarebbe sfuggito di mano. Così era andata per mia madre e così non poteva essere andata per mio padre: perciò lui la lasciò, per questo se ne andò, scomparve come mio fratello e non si fece vedere più. Per questo divenni Claudio: qualcuno doveva prendere il suo posto; e quel qualcuno ero io. Ida che, dalle tempo, e sarà la principessa Diana, dalle spazio e sarà medusa, sarà pesce tropicale, sarà uccello, sarà un cigno selvatico che ti vola sul tetto e ha paura.

Per anni, fui Claudio; rispondevo quando mia madre mi chiamava col suo nome, indossavo vestiti da maschio, mutande da maschio, scarpe da maschio. Lo zaino di scuola era da maschio, i cartoni che guardavo in tv pure, i regali di Natale, del compleanno: niente Barbie sirena, niente Ballerine Volanti, non vorrai venirmi su molle, non vorrai crescermi femmina, niente rossetti, niente Big Babol, nemmeno quelle potevo avere. Ero Claudio e accettavo tutto come una femmina, ero Claudio e mi cresceva il seno sotto la felpa da maschio, ero Claudio e avevo le mestruazioni, il sangue mi macchiava i jeans, i calzoncini da calcetto, ero Claudio e mi rasavo i peli sulle gambe col rasoio che mia madre mi aveva comprato per la faccia, per la barba che non avrei avuto, ero Claudio e al supermercato rubavo il deodorante delle Spice Girls e lo conservavo nello sportellino del contatore dell’acqua. Lo nascondevo affinché mia madre non sapesse ch’ero femmina, che tra le cosce ero divisa, come lei, come sua madre, come me quando ero nata; diventavo Claudio e non le parlavo, perché Claudio non aveva mai imparato. Diventavo altro per farle piacere, e dentro di me non ero Ida, non lo so sono mai stata. Dentro di me ero altro, ero la madre di Stefania, che passava col cestino delle offerte, durante la messa, e poi addentava l’ostia con la bocca tinta di rosso, ero Angelica, la prostituta di Piazza Prefettura, con la gonna rossa e i capelli lunghi fino alla vita, ero Suor Laura, che si diceva fosse una contessa e che in convento indossasse la corona, e infatti aveva gli occhi azzurri come nessuna di noi: doveva per forza essere superiore. Doveva per forza esserci un motivo.

Avevo ventinove anni quando mi sposai; il giorno del matrimonio fu come gli altri giorni della mia vita: misi a frutto il mio talento e divenni altro. Mi trasformai, come sempre: l’abito era un travestimento, i capelli pure e persino la voce, la voce mentre leggevo il testo che mi avrebbe resa moglie. Stavo recitando, ero protagonista, e la gente intorno pure: finto, tutto finto. Mentre percorrevo la navata ero Lady Diana, ancora lei, ossessione che non mi abbandonava, e mentre uscivo dalla chiesa pure, il capo chino, lo sguardo dal basso, mio marito accanto: avanti, filmateci, guardateci, sono capace di sorridere, di mettermi in posa, di piangere, pure, ma non lo farò, non è il momento. Più tardi, piangerò più tardi. Piansi, la sera, recitai la mia commedia nel momento in cui sapevo che tutti mi stavano osservando, e fu un successo, oh, un grande successo. L’indomani, tuttavia, mi ritrovai sola. Sola, in una casa che avevo scelto mentre ero qualcun altro, sola con un uomo che non s’era innamorato di me ma di chissà quale personaggio che m’ero già scordata d’essere stata, sola senza pubblico. Sola senza mia madre, ch’era morta prima di vedermi sposa, ch’era morta chiamandomi Ida, e non più Claudio, Ida, mi aveva detto, e Ida c’era scritto sulla busta che aveva lasciato nel cassetto del comò con le istruzioni per il funerale.

Diventare Ida fu difficile, fu doloroso come mettere al mondo qualcuno, perché di fatto era quello che stavo facendo con me stessa: mi stavo obbligando a nascere, parto indotto perché la creatura tarda a voler venir fuori, parto cesareo, aprite tutto, fatelo senza anestesia, così la mamma vivrà lo stesso dolore di sempre, vivrà lo stesso dolore di quando si figlia e così capirà che ha fatto davvero. E così diverrà madre. Così fu trovarmi sola, così fu sposarmi: mi svegliavo e piangevo, mi accorgevo d’essere io e soffrivo, e mio marito non capiva perché non volessi più guardarmi allo specchio, perché mi sottraessi alle fotografie di compleanno, perché urlassi la domenica, quando lui non andava a lavorare e mi obbligava a guardare la nostra pochezza, la nostra normalità, la nudità di due solitudini che provano ad accoppiarsi, a riprodursi. Figli non ne avemmo e mio marito si stancò presto: gliene fui grata, salutai il suo abbandono come una grazia, come un miracolo, come una liberazione.

Non ho più avuto nessuno, da allora, mai più. E non sono più stata altro; mai più. Però l’altra mattina ho visto un uomo, in biblioteca, un uomo solo. Gli sono andata incontro e l’ho riconosciuto, – Claudio -, e in lui mi sono ritrovata, e in lui mi sono riunita, ricomposta; finalmente. – Claudio -, gli ho detto, – Claudio, dove sei stato, dov’eri finito, quanto ti ha pianto la mamma -, e ho provato sollievo e collera, Claudio era tornato e io non potevo più essere lui, Claudio era tornato e non mi aveva nemmeno lasciato un messaggio, nemmeno spedito una lettera, non s’era nemmeno fatto vivo in tv. – Claudio -, ho ripetuto, stringendomi a lui, e l’uomo m’ha respinta dolcemente, m’ha risposto qualcosa che non ho capito, con la sua voce da maschio, con la sua voce da adulto. Allora mi sono arrabbiata, allora la collera è venuta fuori e ho urlato, e ho pianto: Claudio parlava. Quell’uomo sconosciuto ci aveva mentito: a me, a mia madre, a tutti. E adesso era tornato per farmi sparire, e io non volevo, io non voglio. Essere Ida è difficile, ma è la sola ragione per cui valga vivere.

Quando sono tornata a casa, quel giorno, ho cercato su internet il nome di mio fratello. Nome e cognome, data di nascita, il luogo in cui è scomparso. Niente. Non ho trovato niente. Mio fratello non è mai esistito. Io, invece, ho iniziato da poco.