Silenzio

La trovavo seduta sul pavimento, il telefono in grembo, la schiena appoggiata al muro. Rideva, rideva d’una risata grave, che non rimbalzava, e s’infrangeva al suolo, rideva e ogni tanto imprecava, la voce montava veloce e di nuovo urtava contro le superfici, si rompeva netta, spaccata in due; la sentivo da dietro la porta, quando tornavo a casa, la riconoscevo e mi fermavo ad ascoltarla – nomi di donne che m’erano estranee, nomi come Topazio, Smeraldo, Diamante, nomi di donne da telenovela, che pure vivevano da qualche parte, che pure mia madre conosceva, evocava, insultava senza pietà. Tornavo da scuola e lei era lì, era al suo posto: di giorno, parlava al telefono. – Sto lavorando -, diceva, e ogni tanto le domandavo cosa, cosa facesse, che lavoro fai, mamma? In cucina c’era odore di latte scaldato, che s’è bruciato contro le pareti del pentolino, e lei lavorava in corridoio, tra l’ingresso e l’attaccapanni. – Scrivo storie d’amore -, diceva, – Scrivo romanzi di sesso -, e io non ero contenta, non ero sicura d’aver capito. La risposta non mi bastava, – Romanzi di cosa? -, e lei replicava, s’annoiava: – Di sesso. Lo sai che vuol dire? -, e io non lo sapevo, lo intuivo e mi figuravo lunghe descrizioni di corpi nudi, uomini coi baffi e donne senza faccia che piangevano, che imploravano “non mi lasciare”, come nei film in televisione. Ne avevo di domande, e sapevo che non potevo chiedere, sapevo che si spazientiva; eppure non mi trattenevo. – Sì, ma che fai al telefono? -, e allora socchiudeva gli occhi, smetteva di parlare, muta si voltava dall’altra parte e iniziava il silenzio. – Mamma? Ti prego: al telefono che fai? -, e non avevo detto nulla, non avevo parlato, – Mamma? -, e lei zitta, era inutile, – Mamma, mamma, mamma! -. Urlavo; pronunciavo il suo nome, scala ascendente e discendente, Marialuisa!, Ma-ri-a!, e con le sillabe ricalcavo una canzone, un ritornello insopportabile della radio, Ma-ma-mma! Niente; poteva andare avanti per giorni, io che l’invocavo e lei che non c’era, la mia voce che si gonfiava, che graffiava, che s’ingrossava e lentamente si ritirava, come dopo il tifo allo stadio, come dopo una malattia. – Mamma -, e mi faceva male la gola, – Mamma -, e a un certo punto smettevo, il suo nome non m’importava più, vocalizzi animali e aspri fino a esaurire il fiato, – Mamma -, e alla fine era un sospiro, era la resa. Lei non mi vedeva, non sentiva; non mi parlava. Il suo mutismo era la punizione, l’assenza di parole era il rimprovero, era l’offesa; non esistevo. Negarmi la voce che dava agli altri era il modo migliore per dimostrarmelo; il silenzio come prova ch’ero sparita, cercatemi, stampatemi sui manifesti, pronunciate il mio nome in TV. Sono scomparsa, mia madre ha smesso di parlarmi e io ho smesso di stare al mondo, pagate un riscatto, parlate di me: ditemi qualcosa. Ditemi una cosa qualunque; chiedete a mia madre di rompere questo silenzio.

Qualche volta, mentre parlava al telefono, sollevavo il ricevitore della camera da letto; la voce di mia madre arrivava allora nelle mie orecchie, era mia, le parole che pronunciava per gli altri mi giungevano intatte. Era come infrangere un divieto, era come trasgredire; l’ascoltavo ridere, nominare pianeti, piante, diceva “Mercurio” e diceva “tarassaco”, diceva “rosmarino”, diceva “tornerà, vedrai che tornerà”, e “la luna era in Scorpione, la luna era in Capricorno”. Mia madre era un’astronoma, mia madre studiava il cielo, studiava la terra e i morti che ti vengono in sogno, che ti parlano. Non sono come lei i morti, i morti hanno sempre qualcosa da dire; mia madre, invece, scriveva. Scriveva romanzi d’amore, storie di sesso. Mia madre scriveva e non mi parlava. Il silenzio era la mia punizione.

A scuola raccontavo di lei; di continuo, non avevo altri argomenti. Lei era tutto, più taceva e più avevo bisogno di nominarla, meno c’era e più mi era madre: mia madre scrive storie di sesso, esordivo, e gli altri aprivano la bocca, e gli altri volevano di più, piccioni appena nati dal becco spalancato, bestie affamate incapaci di stare al mondo. Storie di cosa, chiedevano, storie di che, di sesso come, ma io che ne sapevo?, allora inventavo, allora ripetevo. Storie di sesso, dicevo, uomini e donne che si baciano, e descrivevo quello che vedevo in televisione, Topazio disperata, il marito che se n’era andato con un’altra e mio padre pure, mio padre pure se n’era andato. Questo non me lo aveva detto mia madre, però: questo me lo aveva svelato Anna, dodici anni ed era ancora in quarta elementare, dodici anni e un corpo da femmina in anticipo – come Topazio, come mia madre, come le donne sconosciute con cui parlava sempre, invece di parlare con me. – Tuo padre se n’è andato -, mi offese Anna, i premolari che le ricrescevano e il seno appuntito, – Tuo padre vi ha lasciate -, l’abbandono come una bestemmia, e la odiai, “che ne sai, chi te l’ha detto”, e le urlai le parole che mia madre pronunciava al telefono, potere della mimesi, forza della genetica. Gridai con la sua stessa voce greve, roca, la minacciai, la insultai, e mi portarono via, mi ordinarono di star zitta e allora obbedii, allora divenni davvero mia madre. Non dissi più niente, non parlai più; lo feci per punirli, come lei faceva con me. Lo feci per assomigliarle, per fingere un’eredità che non avevo, lo feci per sentirmi figlia, dammi i geni che mi merito, dammi quello che mi spetta; lascia che sia come te, fammi spazio. Lo feci perché non avevo scelta: della mia storia non sapevo niente, e nemmeno della sua. Non mi restava che tacere; per mostrarmi più forte, per esistere. Per necessità.

Tacqui fino alla fine dell’anno scolastico; loro chiedevano e io muta, ripetevano il mio nome come un’ingiuria, il cognome – era quello di mia madre, chiamavano me, ma era lei che doveva rispondere, eri tu, ma’: di’ qualcosa – come un avvertimento. Col silenzio ero brava, l’esperienza m’era servita: anni di domande e adesso avevo la risposta, anni di delusioni, di fallimenti, e adesso il potere era mio. Avevo imparato a tacere come le altre imparano a darsi il rossetto, a truccarsi gli occhi, ad arricciarsi i capelli: osservare m’era servito; subire il mutismo materno era stata la mia scuola. Non parlai più, fino a giugno non udirono la mia voce; mi punirono, mi privarono della merenda, della ricreazione, dell’ora di musica, mi sfinirono d’interrogativi, di ordini, di lettere a mia madre, che lei leggeva, firmava e mandava indietro, fedele al silenzio, fiera della mia disciplina di bambina riottosa: finalmente le assomigliavo. Poi, poco alla volta, mi dimenticarono; non rispondevo più, non reagivo, la voce me l’ero ingoiata insieme alla prima comunione, insieme ai cioccolatini al rhum che mi offriva la direttrice nel tentativo di corrompermi, ma dalla mia bocca usciva solo un mugugno di piacere, d’odio, di vittoria, di dispetto. Guardami, ascoltami, la voce ce l’ho ancora, ma non la sentirai: non è per te. Non la meriti. Mi piazzarono accanto a Lucia, Lucia che pure lei non parlava, che non aveva parlato mai; suo padre era in galera, suo padre aveva messo incinta sua figlia, la sorella di Lucia, suo padre era un prete, era un criminale, un terrorista, suo padre era stato condannato all’ergastolo e Lucia aveva visto un orrore così grande che s’era ammutolita, che s’era spenta, filo elettrico sradicato, motore bruciato. Passavo le mattinate accanto a lei, lei che guardava fisso davanti a sé e mai in mia direzione: non c’ero, niente ci circondava. Solo con lei aprii la bocca, in quei mesi, solo con lei infransi il giuramento; – So cosa stai facendo -, le mormorai, – So che li stai punendo -, e lei niente. – Luci’, non mi prendere in giro. Io lo so -, e la presi per le spalle, – So cosa vuol dire: in un certo senso, siamo sorelle. In qualche modo, sei figlia di mia madre -, e lei continuò a fissare una crepa nel muro, a tamburellarsi le dita sulle labbra grosse, umide di saliva e inutili; non mi voleva con sé. La nostra sorellanza non la riconosceva, in questo, era davvero figlia di mia madre; come gli altri, le ero estranea. Come tutti, le ero nemica.

Il silenzio dei miei dieci anni fu solo un tentativo; una prova, un azzardo senza copione, teatro davanti allo specchio: ero stata artista e pubblico insieme. Mi stancai presto, il silenzio mi venne a noia e m’asciugò la gola col caldo del mese di luglio, del mese di agosto; a settembre avevo ripreso a parlare e accanto a Lucia non avevo voluto sedermi più. – Infame -, le sibilavo, quando le passavo vicino, – Hai tradito tua sorella, mi hai rinnegata -, e mi sentivo in una telenovela, mi sentivo Topazio, avrei voluto spiare il mio riflesso per compiacermi, ma a Lucia non importava. La mia voce non era abbastanza potente, la mia voce era una candela accesa sotto il sole; avrei imparato ad arroventarla, avrei imparato a fare il buio intorno. Vedrete, sarò fiamma, sarò falò del tredici dicembre, sarò incendio: la mia voce brucerà tutto e anche voi brucerete. Mi pregherete di smettere, mi direte “basta, ti prego, basta”. Invocherete il silenzio; il mio silenzio che invero è punizione. Ripresi a parlare, la lezione, ormai, l’avevo imparata e ci avrei messo poco a diventare esperta, a pretendere il podio, a proclamarmi maestra: il veleno ormai l’avevo in me; mi circolava in corpo insieme al sangue, come un virus, come una malattia dormiente pronta a riesplodere.

Passò il tempo, ed ebbi tredici anni, ne ebbi diciotto, poi ventidue; fui ragazza, fui donna, mi preparai a diventare qualcos’altro, ma non per mia madre: per lei, ero sempre io, ero sempre la figlia da punire col silenzio, sempre la bambina con cui tacere per assestare così il peggiore degl’insulti. Ero sempre l’orecchio pronto alle urla, adatto ad ascoltarle – ti prego, mamma, grida, ti prego, assordami – e che invece subiva il vuoto, e di vuoto soffriva. Mia madre mi esprimeva così la collera, vanificando la funzione d’un organo, negando la mia esistenza; – Mamma -, invocavo, e ormai ero grande, ormai ero adulta, le rughe in mezzo alla fronte erano diventate una cicatrice, una piaga ricucita male, – Mamma -, e lei niente, lei ancora mi condannava. Il silenzio era la mia pena; ma il silenzio, adesso, sapevo infliggerlo anch’io, sapevo maneggiarlo come un fioretto, come una rivoltella, come una corda innocua che pure uccide. Tacqui all’improvviso con Antonio, vent’anni e troppo amore, tacqui e poi scomparvi con Guido, che voleva sposarmi dopo essermi stato accanto e avermi vista con l’abito buono, col vestito da sposa di sua madre, in pigiama e nuda. Mi aveva vista in lacrime perché volevo un figlio e poi in lacrime perché un figlio l’avevo perso: perciò smisi di parlargli: lo feci per troppo dolore. Dopo Guido, tacqui con Michele, che arrivò mentre mio figlio, il mio primo figlio, si perdeva nello scarico del gabinetto; pure con lui seppi tacere, con lui che riamavo d’un amore che non sapevo sopportare, che non potevo accettare, perché mi ammutoliva. Quello che gli rivolgevo era un silenzio d’amarezza, non di rabbia, non di rancore: era un silenzio di povertà verbale, di smarrimento, d’estraneità. Mi sentivo con lui come la straniera in terra d’altri: mi parlava, e di sorpresa sorridevo, ero così felice da dimenticare il dolore passato e da provarne uno nuovo, uno tutto suo. Mi parlava Michele e lo amavo, e per questo non dicevo niente. Non avevo le parole, gli ausiliari, i verbi di base: non potevo capirlo. Avevo fame e sete e non sapevo esprimerlo, perciò preferii morire d’inedia, morire disidratata, perciò preferii dargli il silenzio, ferirlo, giustiziarlo. Il silenzio è la mia lama di coltello; col silenzio ti distruggo. Col silenzio torno a zero e annullo le possibilità; così m’aveva insegnato mia madre. Avevo imparato dall’esperienza, non dalla teoria. Il silenzio che mi portavo dentro, e che sapevo cacciar fuori a dovere, era tutta pratica, era tutto virtuosismo maturato con l’esercizio. Anni e anni d’esercizio.

Il mese scorso è nata mia figlia; l’ho chiamata Maria, come mia madre, mia madre che intanto se n’è andata e m’ha lasciato decine di libri scritti da lei, decine di storie d’amori mai vissuti eppure immaginari, decine di profili di uomini che sono donne col nome da maschio, uomini che sono mia madre. Perché alla fine questo era: era una madre, era mia madre e nient’altro; il silenzio che m’imponeva era un silenzio per mancanza di dialogo, era una punizione senza sforzo. Le mancava il lessico, come era mancato a me; le mancava la vita, perciò inventava, perciò descriveva uomini che le assomigliavano: era uomo e donna insieme, era madre e padre, era storia d’amore e silenzio affettivo. Solo quello; ma, allora, non potevo saperlo. Maria dorme molto, dorme tutto il tempo; non è come tutti gli altri neonati mia figlia, non diventa rossa di fame o di frustrazione per non sapersi esprimere. Maria dorme, chiude gli occhi e così rimane per tutta la notte, il corpo scosso dal tremito del respiro: questo è mia figlia adesso, è tutta respiro, è una macchina che s’avvia e non fa rumore. Ogni tanto, però, ho paura, allora le pizzico un piede, allora la scuoto, allora urlo e lei piange, allora urlo più forte e lei pure urla, spiega quella voce insopportabile e animale, la scaglia nella stanza, contro il soffitto, contro di me, che sono sua madre, e io mi metto proprio davanti. Mi lascio colpire, colpiscimi, figlia mia, fallo ancora, fallo più forte. Urla, non tacere. Non farlo: da adesso in poi, non ci sarà più silenzio.