Pantofole rosa

L’uomo indossava delle pantofole rosa. Era un modello da donna, rosa a punta, le paillette argentate che ne incrostavano il tessuto e sembravano averlo rosicchiato. Erano un po’ sciupate, ingrigite, ma sulla destra sopravviveva il resto di un pompon o di un ciuffo di piume, che dava loro un’aria da uccello da cucina, da creatura pronta al sacrificio. All’uomo stavano piccole, il tallone sporgeva da dietro e s’affacciava oltre quello che una volta doveva essere stato velluto: era un tallone screpolato e scuro come una crosta di pecorino ammuffita. La polizia gli fu subito addosso, – È lì dentro! -, e gli agenti s’avventarono sul carrello che giaceva accanto a lui, un carrello piccolo, di quelli con la bandierina, che i bambini spingono nei supermercati, ti entrano a tutta velocità negli stinchi, ti sorprendono alle spalle, ti piegano le ginocchia. Ti attaccano da dietro e non li vedi arrivare. Vorresti imprecare, ma non dici niente, un ago ti trafigge il nervo sciatico e taci, e li maledici, i genitori esasperati che se la prendono con te, con la tua stanchezza a fine giornata, la codardia che ti fa sorridere, – Non è niente -, e l’indomani ti ritrovi un livido, e ti domandi com’è stato, come hai fatto, che t’è successo, e il bambino l’hai scordato – di figli non ne hai avuti, non ne vuoi, ti sono nati talmente tanti anni fa che non sono più figli tuoi –, e il carrellino pure l’hai scordato. Il carrello in miniatura violato dagli agenti, – È lì dentro! -, e il più giovane dei due vi affondò dentro le mani nude, scostò una coperta a quadri, ne estrasse un orso di pezza lercio, brutto, ripescato già morto da chissà quale abbandono, in chissà quale bidone dell’immondizia. Lo sollevò verso la piccola folla che mi comprendeva – io, c’ero anch’io –, lo sollevò come un primo premio: com’era ridicolo, così acerbo e biondo e rosso in viso, il rigonfiamento dell’arma alla cintola che compensava malamente il ritardo del corpo. Com’era magro, il grosso orologio che gli pendeva sul polso da donna – sicuro un regalo della cresima –, com’era piccolo, poteva essere mio fratello, se solo lo avessi avuto. Invece era un agente, invece quella era la polizia: d’istinto, mi ficcai la mano in borsa, – Fa’ che non s’accorgano di niente, fa’ che non vengano -, toccai la confezione di assorbenti che avevo appena rubato, poi quella di cioccolatini. A rubare ero diventata brava, la paura mi mordeva soltanto mentre tornavo a casa, quand’ero già fuori: pensa se mi scoprono, se m’hanno vista e inseguita, pensa se m’arrestano sotto casa. Erano cioccolatini assortiti, incarto dorato e voluttuoso: i miei preferiti erano quelli tempestati di scaglie di nocciole, come le pantofole da donna che indossava quell’uomo, quel rifiuto del parcheggio d’un supermercato, quell’essere umano nelle mani d’un agente ridicolo. Che aveva rubato? Un orso di pezza, davvero? No, non era quello, – È nel borsone -, una donna si fece avanti, – È nel borsone -, e per mano teneva una bambina di cinque o sei anni, occhi scoperti, vedeva tutto -, e subito l’agente obbedì, il borsone fu suo. S’inginocchiò, lo aprì – genuflettersi all’ignoto, così si fa, questa è la fede –, lo aprì e dentro qualcosa si mosse, la folla emise un lamento, fu una doglia collettiva, le mani dell’agente sparirono nel nero del borsone e ne estrassero un corpo, una cosa bianca che si muoveva, un pesce, una lepre, un capriolo che hai in pugno, e adesso che ne farai? Un neonato: questo era, questo aveva rubato l’uomo con le ciabatte rosa, questa era la refurtiva: valeva di più o di meno della somma delle mie? Questo era: un neonato, e di nuovo la folla si dolse, estrarre una vita fa male, ridatemelo, e la folla, ancora, non c’era più da spingere ma tutti spingevano, si stringevano intorno all’uomo, all’agente, al neonato. – Ridatemelo -, la stessa voce, – Ridatemelo, è mio, ridatemelo -, e tutti si zittirono, – È figlio mio, l’ho partorito io -, rivendicava, – L’ho messo al mondo con dolore, ridatemelo, cosa sarà della montata di latte, cosa sarà di lui, cosa sarà di me? -, e nessuno aveva più niente da dire, solo l’uomo parlava. – Ridatemelo, è figlio mio: perché separate un bambino dalla sua mamma? -, e aveva ragione: perché lo facevano? e mentre me lo domandavo, mentre agli altri era passata la voglia di manifestare sgomento, pensai ch’era molto ingiusto, pensai ch’era un peccato: potevano dirmelo prima. Se avessi saputo per tempo che quell’uomo voleva un figlio, se avessi saputo che un agente privo di credibilità sarebbe venuto a portarglielo via, gli avrei dato il mio. L’avrei tenuto da parte per lui, per quella madre maschio derubata da mani estranee, per quella madre senza nome, rimasta orfana del suo bambino. Potevano dirmelo prima: è proprio vero che è sempre questione di tempo, di momento, di opportunità, distribuite come la comunione, solo alla fine. Bisogna aver pazienza, bisogna aver fede: a me manca sia l’una che l’altra. E a quell’uomo, pure, togliendogli il figlio che aveva partorito – rubato, aveva rubato – avevano strappato la fede. Chissà se gli restava la pazienza per un’altra gravidanza.

Quella sera, mi vidi con Marcello. Era mercoledì, come sempre. Venne a trovarmi dopo aver messo i figli a letto, la moglie al sicuro nel reparto di lunga degenza dove indossava la divisa da infermiera, dove al mattino si svestiva, prima di tornare a casa dal marito che, intanto, aveva abbandonato il letto mio e non aveva nemmeno avuto il tempo di sgualcire il loro. Mi telefonò non appena ebbe chiuso la porta alle sue spalle, il percorso dal quinto piano al terzo lo faceva a piedi – nessuno doveva sospettare dei movimenti d’ascensore –, mi telefonò come al solito e come al solito non risposi, m’alzai dal divano e andai ad aprire, i cioccolatini rubati, ancora al loro posto nella scatola, ordinati come pillole anticoncezionali, innocenti come scolari in fila per due. Mi entrò in casa e già iniziò a spogliarmi, il mio incarto era meno sontuoso delle praline industriali che non avevo pagato – sapeva di Sofficini riscaldati al microonde, sapeva di dentifricio e di shampoo all’albicocca. M’infilò le mani nei pantaloni e pensai a quelle dell’agente nel borsone, entrate vuote, uscite reggendo un neonato: prelievo, estrazione, rapina, eccole le vere mani ladre! – Aspetta -, lo fermai, e dovetti dirgli del sangue che aveva ricominciato a fluire, del sangue che significava che non ero incinta, non più; lo ero stata e poi era finita, la gravidanza se l’era presa un dottore, se l’era presa un camice, aspirata via per sempre e mai più restituita. – Aspetta -, e non gli dissi niente, solo che c’era sangue sulle mutande, sangue e nient’altro – aborto, figli, desiderio di averne, possibilità di rifiutarli. Due linee: incinta, e così me n’ero liberata, mentre al tizio con le pantofole rosa, sì, a lui, che succedeva? – Sangue -, dissi soltanto, e lui capì, allontanò la mano dal mio corpo sporco e dal rischio. – Allora niente -, e sorrise, sua figlia Elena aveva i suoi stessi denti, aveva preso da lui. – Niente -, risposi, e gli slacciai la cintura, il mio sangue non era un problema, il mio sangue di madre non lo avrebbe avuto in corpo nessun figlio. Eppure il suo circolava già dentro Elena, dentro Matilde, così si chiamavano: Elena e Matilde. I loro nomi erano la chiave di accesso alla rete internet che comprendeva anche me, membro abusivo di una famiglia che guastavo come una muffa, come un male impossibile da nominare, invisibile e devastatore. Eppure, il mio sangue apparteneva a me soltanto: lo vedevo una volta al mese sugli assorbenti che rubavo al supermercato. Lo vedevo quando mi facevo male, ma le mie ferite guarivano presto, guarda che pelle intatta: sembra quasi ch’io non abbia mai vissuto.

Mi portava sempre qualcosa Marcello, quando veniva a trovarmi: una marmellata, delle barrette di cioccolato al latte per bambini, una fetta della crostata alla frutta che aveva preparato sua moglie e che lui aveva tenuto da parte per me. Era capitato pure che mi portasse un’aspirina, un flacone di detersivo per lavare i piatti, perché l’avevo finito e i piatti li sgrassavo col bagnoschiuma, con lo shampoo. Allo stesso modo m’aveva dato il codice di accesso per la connessione a internet: come gli avanzi di cibo, come le conserve in offerta, come il resto. – Oggi non t’ho portato niente -, si scusò invece quella sera, dopo il coito incompleto, e annuii, ancora inginocchiata sul pavimento, il ventre che mi pulsava di dolore per l’eccesso di vuoto. – Hai bisogno di qualcosa? Posso vedere domani -, e lo immaginai frugare nella dispensa di casa, raccattare un barattolo con la data della fine stampata sul fondo, farlo sparire per me. Allora mi tornò in mente l’uomo del parcheggio, il neonato rubato. – Sì -, gli dissi, – Ho bisogno di un favore. Dovrai aiutarmi ad avere un figlio, quando sarà il momento. Dovrai venire qui, portarmi un figlio e andartene. Fare come con la marmellata, col detergente, fare come coi nomi di Elena e Matilde: venire, lasciarmi ciò che mi serve e poi sparire. Salire le scale a piedi, affinché nessuno s’accorga di nulla -, e lui rise, pensò fosse uno scherzo, ma non lo era. Avevo appena abortito e già pensavo a un figlio nuovo, ero come quelle donne che si tagliano i capelli davanti allo specchio del bagno e poi piangono, le forbici da cucina ancora in mano, umide e sinistre. Il nero contro la ceramica scheggiata del lavabo. Avevo appena abortito e già pensavo a figliare; non subito, no, ma poi, un giorno, al momento buono. Chissà quand’era il momento buono, se coincideva col concepimento o con un furto destinato a soddisfare una voglia – prendi l’uomo del parcheggio, di nuovo. Prendi me, che avevo scelto con cura i cioccolatini dallo scaffale e me li ero cacciati in borsa. Seduta al tavolo della cucina, ne scartai uno, lo spogliai lentamente dall’involucro dorato che lo avvolgeva. Me lo infilai in bocca senza masticarlo, e un crampo mestruale – non era quello, era il dolore della conseguenza – mi tolse il respiro, sicché presi un altro cioccolatino, lo scartai, mentre il primo ancora mi si scioglieva in bocca, e mentre con la lingua lo schiacciavo contro il palato per farlo esplodere – disastro di ganache alla nocciola, magma di burro e zucchero che mi ottundeva i sensi –, mentre con la lingua lo schiacciavo e lui esplodeva, realizzai che quello che tenevo in mano doveva avere la stessa dimensione di mio figlio, del bambino, del groviglio di cellule che avevo espulso, della possibilità che in quel preciso momento era diventata impossibile. Allora ingoiai, allora mi ficcai l’altro in bocca e lo masticai con furia, ne scartai un altro e di nuovo lo mandai giù, andate, colmate il vuoto, piazzatevi tra gl’interstizi, tappate i buchi. Per voi c’è spazio; per voi ho tutto il posto che volete. Mettetevi pure comodi.

In quel supermercato non ci torno più. Poche settimane dopo l’aborto ho vinto una borsa di dottorato, me ne sono andata altrove. Ho lasciato quella città, la casa al terzo piano, ho abbandonato le abitudini e anche Marcello, il nome delle sue figlie che mi connetteva col resto del mondo. In compenso, non ho smesso di rubare; anzi, ho smesso – in un Paese che non è il mio, mi riesce ancora difficile imparare i codici della menzogna, della parola che ne significa un’altra, del furto, perché in fondo questo è rubare. È mentire, mi fa male ammetterlo perché mi obbliga a chiamare bugiardo l’uomo nel parcheggio: il figlio che aveva rubato, il neonato che rivendicava – Ridatemelo, è mio! – era d’un’altra. Non gli apparteneva; così come non mi appartenevano i cioccolatini che m’ero cacciata prima in borsa e poi in bocca. Li avevo ingoiati, ma non erano miei. Nemmeno il test di gravidanza che ho rubato, senza averne l’intenzione, mi appartiene: sono entrata in farmacia, ho preso quello e un analgesico – non ho più Marcello che arriva con l’aspirina a portarsi via il dolore – e la commessa era una ragazza italiana, l’ho capito dall’accento. Che fai, di dove sei, ah, Reggio Emilia, lettere, e tu?, e alla fine ci siamo capite e ci siamo confuse, e alla fine sullo scontrino c’erano solo le compresse per il mal di testa, le stesse con cui tento di tamponare i dolori mestruali, ma non ci riesco. Forse la gravidanza è il solo tampone efficace; il test l’ho rubato, ma il risultato – una linea, due linee: la verità restituita al potere delle aste, la vita ridotto a un getto d’urina su un dispositivo monouso –, il risultato è mio soltanto.

Mi chiudo nel bagno dell’università, mi contorco ed eseguo il numero di donna che ho imparato da bambina: gambe divaricate, mani sulle ginocchia, tutta la vita è un esercizio femmina d’equilibrio, abbiamo il corpo studiato per reggersi da solo. Aspetto in quella posizione, le dita umide; aspetto e so: non sono incinta.

Da un computer della biblioteca, accedo a internet; provo a entrare nella casella email di Marcello. È la prima volta che lo faccio, ma è facile: digito i nomi delle figlie ed eccomi, ho davanti a me la sua vita, pubblicità di telefonia, di negozi di elettrodomestici, la bolletta della luce. Non so cosa sto cercando, forse solo di farne parte, di appropriarmi dell’esistenza di qualcuno che una volta m’aveva chiesto se avessi bisogno di qualcosa. O forse sto cercando una traccia della mia, di esistenza, e spero di trovarla laddove nulla mi appartiene. Sono una ladra, sono tutta finzione. In fondo, vedi, non sono diversa dall’uomo del parcheggio.