La settimana scorsa mia madre si è rimessa l’abito da sposa. Non le si chiude più sulla schiena e la gonna, sotto, è lercia – la muffa e il tempo l’hanno incancrenita -, ma lei lo stesso ha voluto indossarlo. Quando sono tornata da scuola, l’ho trovata così, col vestito spalancato da dietro e spiovente sui piedi, la scollatura incrostata di perline e il seno appiattito sotto il tulle a fiori; se ne stava in cucina, in piedi davanti al frigorifero aperto, come se aspettasse qualcosa, quasi che qualcuno dovesse uscire da lì dentro. – Ciao ma’ -, le ho detto soltanto, perché è da quando ero piccola che babbo mi ha insegnato che non bisogna dare corda a chi cerca di attirare l’attenzione, sennò si finisce per litigare. E io, l’ultima volta che ho litigato con qualcuno, ho rotto il naso a Martina, la mia compagna di banco, che per attirare l’attenzione ha detto a tutti che mia madre è pazza e che è stata in manicomio. È stato allora che le ho rotto il naso, e mi hanno sospeso, anche se poi a scuola ci sono andata lo stesso perché sulla lettera ai miei genitori c’era scritto “obbligo di frequenza”. Pazzi saranno loro, che ti cacciano ma ti obbligano a restare. Martina, invece, è una stupida: lo sanno tutti che i manicomi non esistono più. Li hanno chiusi tanti anni fa.L’abito da sposa, mia madre l’ha tenuto su per tre giorni interi. Usciva sul balcone a stendere il bucato e inciampava nel taffetà macchiato, andava a comprare il giornale e in biblioteca, andava a prendersi un cappuccino in centro e l’abito non se lo toglieva, e nessuno le diceva nulla. Nessuno, nemmeno il babbo, anche se lo vedevo che si vergognava, soprattutto quando lei si era presentata in ufficio da lui senza curarsi di avere la schiena nuda e il reggiseno bene in vista, sicché tutti gliel’hanno guardato e non deve essere stato granché come spettacolo. Però non le ha chiesto di cambiarsi, e nemmeno io l’ho fatto: alla fine, sarò sincera, non le stava così male. Certo, era meglio della pelliccia finta con la scritta di paillettes sulla schiena, “Touch me”: quella sì che era brutta, di quella sì che c’era da vergognarsi. Con l’abito da sposa è pure venuta a prendermi da scuola: erano anni che non lo faceva più e non mi aspettavo di trovarla fuori; a dire il vero, lì per lì non l’ho nemmeno riconosciuta, ma forse è perché non stavo pensando a lei e ci ho messo un po’ a sovrapporre la figura di quella pazza in abito bianco a quella di mia madre. Al contrario, erano proprio la stessa persona; agli altri non ho detto niente, ho fatto come se mia madre fosse vestita normalmente, come se indossasse i jeans, come le mamme delle altre, e le sono andata incontro. Ho obbedito a mio padre, non le ho dato corda, anche se, te lo giuro, quando mi ha vista e ha detto, imitando la voce di Brooke di Beautiful, “ecco la mia damigella d’onore”, avrei voluto strapparle il vestito, oppure mettermi a piangere. Invece, l’ho presa a braccetto e me la sono portata via; – Ho fame -, ho annunciato, – Devo mangiare qualcosa -, e lei ha insistito per pranzare fuori e mi ha offerto una pizza, ha preteso le patatine e, alla fine, ha insistito per avere anche la torta gelato, con la candelina sopra. Vedi, essere figlia di mia madre ha i suoi vantaggi: ogni tanto ti ritrovi a festeggiare un matrimonio senza che qualcuno si sia sposato davvero, e ti guadagni pure pizza e patatine a pranzo. Se mi concentro su questo, all’abito da sposa non ci penso più; anche perché, non ci crederai ma questa è la versione di mia madre che preferisco. Mi piace far festa, e non è perché ho quasi dieci anni e sono una bambina: non sono davvero una bambina, se mi guardi bene ho già le rughe in faccia e i peli sotto le ascelle e sulle gambe, e pure in mezzo alle gambe. In uno dei suoi giorni buoni, prima di Natale, mia madre mi portò con sé dalla parrucchiera; – Tingile i capelli, Manuela! -, ed io ero eccitatissima, finalmente avrei avuto anch’io lo shatush, come Belen Rodriguez, come Beyoncé, che a me nemmeno piace, ma mia madre, nei giorni buoni, mi dice che le assomiglio. – Hai un bel culo -, mi dice, – Più di Beyoncé -, e all’inizio mi offendevo, quella parola mi metteva a disagio, ma adesso ho capito che è un complimento, allora, quel giorno prima di Natale, dicevo, chiesi a Manuela lo shatush ai capelli, e pure le mèche, e anche mia madre si fece di tutto. Visto che c’eravamo, mi diede il permesso di farmi mettere lo smalto sulle unghie e mi fece depilare le gambe per la prima volta, e fu doloroso, ma fu anche un prodigio, perché le gambe senza peli non me le vedevo da quando ero all’asilo. L’unico problema era che, essendo inverno, nessuno poteva ammirare il gran lavoro che m’aveva fatto Manuela e a me sembrò uno spreco; avrei voluto abbassarmi i pantaloni ed esibire i polpacci glabri come un bambolotto, come una Barbie, come una velina che balla sul bancone. Invece, solo lo smalto potei sfoggiare, anche se a scuola alla maestra non piacque granché; io però non ci rimasi male, non fui triste. Nemmeno per le gambe ebbi davvero il tempo di essere triste perché quando tornai a casa, quel giorno – l’indomani del parrucchiere –, mia madre non la trovai più: sparita. Non fraintendermi, non è che se ne fosse andata di casa. Non c’era da chiamare i carabinieri e nemmeno da farsi la messa in piega per un collegamento con Chi l’ha visto?, perché mia madre non se n’era andata. C’era sempre ma, per così dire, in un’altra versione; me ne accorsi subito, da quando infilai la chiave nella serratura e mi resi conto che la porta era in realtà aperta. Se l’era scordata, doveva essere rientrata in tutta fretta per mettersi a letto, presa da una stanchezza prepotente, e infatti fu lì che trovai la sua sostituta, un fagotto smilzo e bagnato di lacrime e di sudore, a mollo nel buio di persiane chiuse e di tende tirate. Accesi la luce, – Alzati, ma’ -, andai verso di lei, – Alzati, dobbiamo mangiare -, ma lei si coprì gli occhi con le mani, fece no con la testa, – Spegni -, mormorò, – Ti prego, mi fa male -, e mi veniva da piangere, ma mi misi a urlare, a insultarla. Le dissi tutte le parolacce che mi mettevano a disagio, dissi pure culo, dissi stronza, eppure lei non si mosse; provai a tirarla dai piedi, – Alzati! -, ero furiosa: delle sue versioni, quella stanca e pigra era quella che più detestavo, – Alzati, ho fame! -, ma fu tutto inutile, la mia voce s’infrangeva contro il legno laccato del comò, contro il broccato degli abat-jour. La guardai: era brutta. Magra, le unghie laccate di blu, la federa macchiata di trucco e i capelli già crespi sulle tempie. Dio, come era brutta! E poi dio, che spreco. – Quanto sei stupida, ma’ -, le dissi, e accesi pure la luce del comodino per vedere meglio lo sfacelo: ottantamila lire di parrucchiere sfracellati contro il cuscino.Nei giorni in cui mia madre se ne stava chiusa nella sua stanza, io vivevo da sola. Mio padre tornava dall’ufficio e mi portava un mcdonald’s, oppure qualcosa dal cinese, e tutti e due mangiavamo in silenzio; non era male, almeno da quel punto di vista. La versione depressa di mia madre mi regalava qualche bella cena e la possibilità di guardare la tv fino a tardi, perché babbo si addormentava davanti a qualunque cosa e io ne approfittavo per cambiare canale e vedere quello che piaceva a me. Ogni tanto, nelle serate più fortunate, sono riuscita anche a godermi qualche scena di un porno, di quelli trasmessi sulle reti locali, anche se devo ammettere che era più il proibito a procurarmi piacere, perché i film non mi parevano granché: avevo visto di meglio dalla finestra del salotto, nelle serate in cui i peruviani del palazzo di fronte facevano pace e si spogliavano con la luce accesa. Con mia madre, non ci perdevamo niente, ci accucciavamo al buio e guardavamo lo spettacolo, e lei rideva e urlava come i tacchini, quando mia nonna aveva già tagliato loro la gola, e quelli continuavano a correre nel cortile, decapitati e vivi.Tutto sommato, credo di essere fortunata: ci sono bambini che una mamma non ce l’hanno. Prendi Arianna, che vive dalle suore e dorme in uno stanzino brutto in un letto di ferro: sicuro ci sono gli scarafaggi, sotto, e a me gli scarafaggi non piacciono, perché quando li ammazzi fanno rumore. Prendi Candy Candy, dei cartoni animati, che è orfana, prendi – cosa ne so, in tv è pieno di figli senza genitori, e non è che se la passino bene. Prendi babbo, che ha visto sua madre morta nella bara; questo dev’essere stato bello, in verità, e gli ho sempre fatto tante domande, ma lui non ha voluto mai dirmi niente. È stata mia madre a raccontarmelo: in un pomeriggio di euforia, mi ha spifferato che la nonna è morta con gli occhi aperti e che per non farli vedere alla gente le hanno dovuto mettere gli occhiali da sole. Quanto avrei voluto esserci! A me i morti non fanno paura; anzi, mi piacciono: forse da grande farò la becchina, se non riesco a fare la parrucchiera. La parrucchiera mi piacerebbe: potrei sistemare i disastri che mamma si fa nei giorni di depressione euforica, quando non riesce a star ferma e si taglia i capelli da sola davanti allo specchio. Ecco, quella versione non mi piace, ma non come la depressa stanca: quella versione mi sta proprio antipatica, sicché alla fine non so se a mia madre voglio bene davvero, capisci? Però, dicevo, sono fortunata: ci sono tanti bambini orfani. Io un padre ce l’ho, e pure una madre. Il problema è che, di madre, non ne ho solo una, ma tante quante sono le sue versioni e, che rimanga tra noi, di tutte queste mamme inizio ad averne abbastanza. In casa, ormai, iniziamo a essere in troppi.Ieri, quando sono tornata da scuola, ho trovato l’abito da sposa appeso alla finestra. Appena l’ho visto, ho avuto paura, perché sembrava una persona vera e ho temuto che mia madre ne stesse facendo una delle sue e volesse buttarsi di sotto. Invece lei era seduta in cucina, stava scrivendo furiosamente su un diario; – Shhhh -, mi ha detto, appena mi ha sentito entrare, – Non parlare: sto scrivendo una lettera d’amore al mio fidanzato -, e ho sbirciato sulla pagina e sono riuscita a leggere: “Caro Leonida”. Lo sai chi è, Leonida? È il dottor Leonetti, il suo psichiatra: niente di grave, è già successo. Ogni tanto, torna quella versione di mia madre, la versione innamorata, ma stavolta dice che fa sul serio, che sta per partire con lui. Mi mostra anche una valigia pronta, vanno in luna di miele, vanno in crociera, vanno a New York a farsi le foto con i caffè di Starbucks in mano, e io un po’ la lascio sfogare, un po’ ho paura; a un certo punto, arriva pure mio padre e conferma tutto, mi dice sì, tua madre parte per un po’, la accompagno io, e allora mi metto a piangere. Ho quasi dieci anni e sono solo una bambina, anche se ho le rughe in faccia e i peli mi sono ricresciuti sulle gambe e adesso assomigliano di nuovo a quelle di un maschio; sono solo una bambina e rivoglio la mia mamma, e non m’importa più di assaporare la solitudine in pace, non m’importa più di tutta la libertà che avrò la sera, senza di lei, non m’interessa il cibo cinese, il mcdonald’s, e nemmeno i film porno che potrò guardare senza problemi. Non voglio che se ne vada col dottore, e piango tanto, e urlo, e la imploro ti prego, ma’, ti prego, non te ne andare. Lei sembra accorgersi di me e mi viene incontro: per un attimo smette di sorridere come una pazza e mi guarda, mi abbraccia. Sa di big babol, sa del profumo La dolce Vita di Dior, sa di sigarette alla menta e di mamma; – Non piangere -, mi dice, – Non piangere, ché torno presto -, e sono confusa, non la voglio, non voglio questa mamma innamorata di un altro, non voglio la mamma depressa e stanca, non voglio nemmeno la svampita in abito da sposa né quella che dice culo, eppure le voglio tutte insieme. – Chi è che torna? -, le domando, – Chi sei? -, e lei ridiventa pazza, ride, – Sono la tua mamma -, e mi stringe forte a sé. Non la guardo in viso, ma l’abbraccio anch’io, e le credo, tornerà, perché so che, nonostante tutte le versioni, è proprio lei. La mia mamma è proprio lei: sposa, bambina e stanca. E sono fortunata, perché tutte le mamme che gli altri non hanno, ce le ho io, e anche per loro devo essere felice. E, in fondo, non ci crederai, in fondo lo sono.